Visualizzazioni totali

sabato 30 luglio 2011

La Cattolica di Stilo

La Cattolica, Stilo
   La Cattolica era la chiesa madre tra le cinque parrocchie del paese, retta da un vicario perpetuo (succeduto al protopapas di epoca bizantina), che aveva diritto di sepoltura al suo interno, ne sono testimonianza i resti umani rinvenuti in un sepolcro marmoreo con un anello di valore.
La denominazione di Cattolica stava ad indicarne la categoria delle "chiese privilegiate" di primo grado, infatti con la nomenclatura impiegata sotto il dominio bizantino nelle province dell'Italia meridionale (soggette al rito greco), la definizione di katholikì spettava solo alle chiese munite di battistero. Cosa che è rimasta fino ad oggi in certe località legate per tradizione a questo titolo, come ad esempio la chiesa "Cattolica dei Greci" di Reggio Calabria che fu la prima della città.
In effetti l'architettura, la ricchezza degli affreschi e la copertura in piombo delle cupole dimostrano che non si tratta di un tempietto di minore importanza. La Cattolica di Stilo, costituisce un'architettura puramente e tipicamente bizantina, come si può vedere dalla pianta e dalla costruzione, unico esempio del genere insieme all'oratorio di S.Marco a Rossano.
La Cattolica si rifà al modello della chiesa a  croce greca inscritta (6x6 m.), tipico del periodo medio-bizantino, durante il quale la profonda evoluzione nell'architettura religiosa fu connotata dall'elaborazione di sistemi particolarmente raffinati ed originali, di cui rappresenta una forma “contratta”: è infatti priva di nartece e le tre absidi del santuario confinano direttamente con le campate orientali del naos, che vanno così a formare gli spazi del bema e dei pastoforia.

All'interno la chiesa è divisa in nove spazi uguali da quattro colonne, lo spazio quadrato centrale e quelli angolari sono coperti da cupole su dei cilindri di diametro uguale, la cupola mediana è invece leggermente più alta ed ha un diametro maggiore.

Interno, parete absidale
Sulla parte di ponente la costruzione si adagia per lo più sulla roccia nuda, mentre la parte di levante, che termina con tre absidi, poggia il suo peso su tre basi di pietra e di materiale laterizio.
L'aspetto generale dell'edificio è di forma cubica, realizzato con un particolare intreccio di grossi mattoni uniti tra loro dalla malta. L'uso del materiale laterizio (più costoso ma più semplice da utilizzare) e la tecnica usata dai costruttori, non trovarono però concorde Paolo Orsi che data i mattoni come "cortine di laterizi della buona età imperiale", in contrapposizione ad altri studiosi che pensavano fossero usati per "disciogliere la plasticità della parete nell’accentuazione della grana e del colore del materiale".
Esternamente è quasi priva di decorazioni, a parte le cupolette che ne sono ricche, rivestite di mattonelle quadrate di cotto disposte a losanga, e di due cornici di mattoni disposti a dente di sega lungo l'andamento delle finestre. Krautheimer ha osservato che il fregio "reticolare" formato dalle mattonelle disposte a losanga che avvolge i tamburi delle cupolette si ritrova anche in alcune chiese del Mani e del circondario di Arta (cfr. la chiesa dei SS.Sergio e Bacco a Tourlotti e quella di S.Basilio ad Arta).

La particolare collocazione delle fonti di luce all'interno della Cattolica, mette in risalto lo spazio e conferisce maggiore slancio verticale. Questa dilatazione dello spazio serviva a mettere in risalto gli affreschi di cui i muri della chiesa erano interamente ricoperti in origine, decorazioni pittoriche dunque a cui era affidato il compito di decontestualizzare la superficie muraria.
Il piccolo ambiente della chiesa è munito di tre absidi sul versante orientale: quella centrale (il bema) conteneva l'altare vero e proprio, quella a nord (prothesis) accoglieva il rito preparatorio del pane e del vino, mentre quella a sud (diaconikon) custodiva gli arredi sacri e serviva per la vestizione dei sacerdoti prima della liturgia. In particolare sopra la prothesis è posta una campana (di manifattura locale) del 1577, risalente all'epoca in cui la chiesa fu convertita al rito latino, che raffigura a rilievo una Madonna con Bambino e, limitata da croci, un'iscrizione:
« Verbum Caro Factum Est Anno Domini MCLXXVII Mater Misericordiæ »
Un pezzo di colonna antica nella prothesis, fu adibito a mensa per la conservazione dell'eucarestia, mentre le quattro colonne che sostengono le cupolette, poggiano su basi differenti, recuperate da epoca molto più antica (es. una base ionica capovolta innestata sopra un capitello corinzio rovesciato, o ancora un capitello ionico capovolto).
Sono inoltre presenti all'interno della Cattolica delle iscrizioni in lingua araba, una corrisponde alla shahada, ovvero alla professione di fede:
"La Ila ha Illa Alla h wahdahu" ovvero: "Non c'è Dio all'infuori di Dio solo"

mentre un'altra recita:
"Lilla hi al Hamdu" ovvero: "A Dio la lode"
Infatti non è da escludere un eventuale uso della Cattolica come oratorio musulmano, come d'altro canto non è da escludere che le colonne possano essere state portate sul posto già incise; comunque gli Arabi, il cui scopo generalmente non era la conquista della regione ma il suo saccheggio, inspiegabilmente non distrussero la piccola chiesa bizantina, ma decisero di innalzarla a propria sede di culto e di preghiera, forse perché attratti dalla sua bellezza, e dal suo particolare posizionamento.
Alla luce delle scarse testimonianze delle fonti, il problema dell’ambito cronologico dell’edificio ha interessato larga parte della critica che ha spaziato al riguardo dal X al XIV secolo. Attualmente prevale l’ipotesi che colloca la Cattolica tra l’ultimo quarto del X e l’inizio dell’XI secolo sulla base di alcuni confronti architettonici regionali, come il citato Oratorio di San Marco a Rossano.

Affreschi

Le pitture, che dovevano coprire quasi tutte le superfici murarie della piccola chiesa, sono palinsesti (vi si contano fino a 6 strati di pittura sovrapposti). Gli affreschi non ricoprono interamente le pareti, ma sono differentemente distribuiti all’interno di esse; non vi sono tracce di pittura sul soffitto, ad eccezione della volta a botte del bema.
 
Ascensione, volta del bema

E’ quasi certo che sottostante la scena dell’Ascensione visibile attualmente, e ritenuta di fine XII inizio XIII secolo, fosse campito il medesimo soggetto.

Stratificazione della volta del bema da: Francesco Zago, La Cattolica di Stilo e i suoi affreschi
 
Sulla parete occidentale, si notano due figure frammentarie che appartengono alla decorazione originaria della chiesa (entro l'XI secolo), a destra e a sinistra di una Dormizione della Vergine che risale invece allo strato decorativo più recente (XV secolo). Queste figure sembrerebbero indicare qui – per quanto in una posizione del tutto anomala per l'epoca - la presenza nel programma iconografico originario di una Crocefissione.
Dormizione della Vergine, XV secolo
sottolineate in rosso le due figure che residuano dalla originaria Crocefissione
 
La figura di destra guarda verso l'alto e indossa un copricapo maculato che ne cinge il volto e una veste lunga, quadrettata, con un laccio annodato in vita, e alti calzari rossi, abbigliamento tipico di un soldato (per la posa più il buon centurione che Longino).
Nella figura di sinistra, che tiene in mano un cartiglio, potrebbe invece individuarsi quella del donatore.
Nella più tarda Dormizione che ha sostituito la Crocefissione - di stile gotico-valenciano e riferibile agli inizi del XV secolo - da notare la scena rappresentata nel registro più basso, in cui un angelo sta per recidere con la spada le mani di un eretico che vuole profanare il corpo della Vergine.

Annunciazione
 
Nella parte sinistra della parete occidentale era rappresentata l'Annunciazione. Il volto della Vergine appartiene ad uno strato riconducibile al XII secolo ed è impossibile stabilire se Ella fosse stante o seduta in trono. L'arcangelo Gabriele, con il busto eretto, il braccio destro proteso in avanti e che avanza con un passo ampio, appartiene invece ad uno strato più tardo (fine XIII secolo), quando si è ipotizzato possa aver avuto luogo un rinnovamento della decorazione pittorica che ricalcava gli stessi temi iconografici tracciati nel secolo precedente.



 


Mistrà, Introduzione

Nel 1249 Guglielmo II Villehardouin (1245-1278) edificò una fortezza su una collina ad ovest di Sparta. Ai piedi di questa sorse una città.
L'insediamento originario comprendeva la cittadella e la parte alta della città ed era protetto da una cinta muraria che sul versante orientale passava sopra il più recente monastero della Pantanassa.
Quando la città s'ingrandì fu necessario edificare una seconda cinta muraria per racchiudere gli edifici sorti al di fuori della prima. L'area compresa tra le due cinte venne chiamata Città Media (Mesokorion)

Quattro sono le parti, che dividono detta Città, cosi che l'una del tutto separata dall'altra formino assieme un corpo senza giunture. Il Castello una, la Terra l'altra, e due Borghi, de quali il prim'è chiamato Mesokorion, cioè Borgo di mezzo; Exocorion il secondo, cioè Borgo di fuori, chiamato anche da Turchi Maratche.
Exokorion è segiunto dalle tre antecedenti per il fiume Vasolipotamos; ond'a quelle s'unisse per sol'un ponte di pietra.

(da Memorie Istoriografiche del Regno della Morea  Riacquistato dall'armi della Sereniss. Repubblica di Venezia, 1692)

1. Ingresso principale ; 2. S. Demetrio (Mitropolis) ; 3. Évangélistria ; 4. Santi Teodori ; 5. Hodigitria-Afendiko ; 6. Porta di Monemvasia ; 7. San Nicola ; 8. Palazzo dei Despoti ; 9. Porta di Nauplia ; 10. Ingresso superiore alla cittadella ; 11. Hagia Sophia ; 12. « Palazzo Piccolo » ; 13. Cittadella ; 14. Mavroporta ; 15. Pantanassa ; 16. Tassiarchi ; 17. Casa Frangopoulos ; 18. Péribleptos ; 19. San Giorgio ; 20. Casa Krévata ; 21. Marmara (ingresso) ; 22. Aï-Yannakis (S. Giovanni) ; 23. Casa  Lascaris ; 24. San Cristoforo ; 25. Case in rovina ; 26. San Ciriaco.

Nel 1349 divenne capitale del Despotato di Morea.
Nel 1461, poco dopo la caduta di Costantinopoli, Mistrà passò sotto il dominio ottomano (dal 1686 al 1715 fu però ripresa e tenuta dai veneziani), ma rimase una città fiorente fino alla fine del '700.



Questa stampa veneziana del secolo XVII indica che la città alta era stata abbandonata e soltanto la città bassa era ancora popolata. Il declino di Mistrà è continuato nel secolo XVIII: in particolare nel 1770 con le incursioni degli albanesi che saccheggiarono la città (che era stata occupata dai Russi e dagli insorti Greci). Incendiata dagli albanesi durante la rivolta del 1779, fu definitivamente abbandonata nel 1825. Nel 1834 Ottone I di Baviera, il primo re della Grecia, fondò la città di Sparta (sul luogo presupposto della città antica) e spostò là la popolazione restante di Mistrà.


Casa Frangopoulos






Hagios Demetrios (Mitropolis), Mistrà

Hagios Demetrios (Mitropolis)


Secondo alcuni la chiesa di San Demetrio fu fatta costruire nel 1291-1292  dal metropolita Niceforo Moschopoulos, secondo altra, più probabile ipotesi fu invece fondata intorno al 1270 dal metropolita Eugenio (raffigurato nel diakonikon) e soltanto completata con l'aggiunta del nartece nel 1291.
La chiesa fu edificata originariamente secondo un impianto basilicale a tre navate, con quella centrale coperta da travatura lignea e le due laterali, di medesima lunghezza, coperte a volta.
Nel XV sec., il metropolita Matteo fece ricostruire le parti superiori, sovrapponendo una struttura cruciforme a cupole, nel maldestro tentativo di renderla simile alla Afendicò: nella navata centrale si scorge perfettamente la linea di transizione tra la fase di costruzione del XIII sec. e quella del XV sec., segnata da un fregio scolpito sotto il quale sussistono tracce di pitture parietali. La decorazione parietale fu infatti gravemente danneggiata dalla ristrutturazione voluta da Matteo, sì che tutte le figure dipinte sul lato meridionale della nave appaiono oggi"decapitate",

La navata centrale con il fregio scolpito che corrisponde alla precedente altezza della chiesa
 
Le arcate della navata centrale poggiano su capitelli bizantini* di reimpiego e le colonne recano incisioni che riassumono i privilegi concessi dagli imperatori alla chiesa. Di reimpiego sono anche le lastre marmoree che formano il parapetto del matroneo. Parte della primitiva pavimentazione a tarsie marmoree policrome si è conservata.
 

* da segnalare quello decorato con la figura del centauro che imbraccia lo scudo nella sinistra e sguaina la spada nella destra.

Angolo sudoccidentale

Davanti all'iconostasi, una lastra collocata in epoca moderna, che reca un rilievo con l'aquila bicipite  incoronata, indicherebbe il luogo in cui Costantino Dragaze fu consacrato imperatore di Bisanzio il 6 gennaio 1449 alla presenza del fratello Tommaso e di due alti funzionari costantinopolitani, Alessio Filantropeno Lascaris e Manuele Paleologo Iagari (1).
 Nella navata destra si nota un'insolita cattedra episcopale del XVII sec.
 

La torre campanaria, costruita su una cappella è un'aggiunta successiva al 1316.
La facciata absidale risale quasi interamente alla chiesa originaria e si contraddistingue per l'ordinata muratura “a castone” (opera cloisonné), la decorazione seghettata in mattoni che enfatizza le finestre absidali. Al di sopra delle absidi laterali, la monotonia della muratura è rotta da due lastre rettangolari con un cerchio di mosaico rosso.

 
Gli affreschi non presentano unità né di programma né di stile. Parte risalgono alla fine del XIII sec, parte alla prima metà del XIV.

Catino absidale: E' una delle pitture più antiche. La Vergine è ritratta in piedi con in braccio il bambino (Kyriotissa). La figura di un prelato prosternato in preghiera, il donatore, fu successivamente cancellata.



Prothesis: la prothesis e gran parte della navata settentrionale sono occupate da ritratti di S.Demetrio di Tessalonica e da scene della sua vita e del suo martirio.

S.Demetrio in prigione, navata settentrionale

Il diakonikon è invece dedicato ai SS.Cosma e Damiano che sono raffigurati a figura intera nella nicchia con lo sguardo rivolto al Cristo misericordioso raffigurato nella conca absidale. Sulle pareti quattro scene dei miracoli compiuti dai due santi.

I SS.Cosma e Damiano, parete del diakonikon

Nella volta del diakonikon si trova l'affresco forse più caratteristico dell'intera chiesa in cui è rappresentata l'Etimasia: un trono vuoto sormontato dalla croce patriarcale che simboleggia l'attesa del ritorno di Cristo per il Giudizio Universale; magnifici gli angeli per l'armonia del movimento e l'espressione estatica del volto.

Etimasia, volta del diakonikon
 
 
Note:
 
(1) Secondo gran parte delle fonti, tuttavia,  Costantino Dragaze fu semplicemente proclamato imperatore, mentre la cerimonia d'incoronazione non ebbe affatto luogo.























venerdì 29 luglio 2011

Hagia Sophia, Mistrà

Chiesa di Santa Sofia


Prospetto settentrionale
 
Prospetto orientale

 Fatta edificare nel 1350 da Manuele Cantacuzeno, primo despota di Morea (1349-1380) è del tipo a due colonne (gli altri due angoli della cupola poggiano su setti murari longitudinali provenienti dall'abside) e a pianta allungata con nartece e paraekklesion.
Sul lato settentrionale la chiesa è fiancheggiata da un porticato a tre arcate che termina ad est con un'ampia cappella – la cui muratura appare simile a quella delle absidi, sì da farla ritenere coeva alla fondazione della chiesa – che sporge dalla facciata absidale mentre lungo il lato meridionale è affiancata dal paraekklesion che appare invece incluso nella pianta originale.
Il porticato settentrionale termina inoltre ad ovest con la torre campanaria, ad ovest della quale sono addossate tre camere quadrate a calotta probabilmente destinate ad altrettante sepolture reali.
La facciata occidentale era preceduta a sua volta da un porticato oggi completamente in rovina.

Prospetto occidentale

Sepolture: Maddalena Tocco (Teodora), prima moglie di Costantino XI, quando Costantino ascese al trono imperiale le sue spoglie furono però trasferite nella chiesa costantinopolitana di S.Salvatore in chora, (probabilmente nella tomba del XV secolo non ancora identificata nel nartece esterno), qui dovrebbe essere rimasto quindi solo un cenotafio; Cleofe Malatesta,  moglie di Teodoro II despota di Morea.


Silvia Ronchey avanza l'ipotesi che, nella più occidentale delle tre camere a calotta (C sulla pianta e in primo piano nella fotografia) sia stata inizialmente sepolta Cleofe Malatesta. Questo è il resoconto del suo sopralluogo:
Il τάφος in questione, pur avendo due lastre tombali, parrebbe essere stato adibito infatti ad una singola sepoltura. Alla ricognizione odierna, inoltre, le esili tracce di affresco che si trovano nell'absidiola, sul lato orientale, mostrano in alto a sinistra una piccola Theotokos con Bambino. In basso potrebbero congetturarsi due figure, a sinistra una maschile, in posizione eretta e a destra una femminile, orante, rivolta alla Theotokos (…). Al centro del catino absidale, a destra della Vergine, doveva presumibilmente trovarsi un'immagine del Pantokrator, oggi scomparsa, a sormontare la crux golgothana con pendenti, ancora leggibili, di cui s'intravedono l'α e l'ω (1).

Affreschi:
Nell’abside è raffigurato il Cristo benedicente. Questo fa pensare che in origine la chiesa fosse
dedicata al Redentore (Cristo Zoodotis, dispensatore di vita, come è nominata nella Cronaca di Sfranze la chiesa dove furono sepolte le due spose reali) anziché alla Divina Saggezza. Nella volta del bema è raffigurata l'Ascensione, con il Cristo racchiuso in una gloria circolare sostenuta da quattro angeli.


 
Cappelle orientali:
A (paraekklesion). Nella cupola la Vergine blacherniotissa circondata, sul registro inferiore, dalla Divina Liturgia. Sulla parete ovest, la Natività di Maria.

cupola
 
Natività di Maria 

B. Nella cupola il Cristo tra le schiere degli angeli. In due nicchie lungo le pareti sud e nord  due grandi Arcangeli in piedi, a sottolineare la natura funeraria della cappella che contiene anche una tomba. Nell'abside la Vergine platytera (“più ampia dei cieli”, col bambino racchiuso in un disco) tra due angeli. La Dormizione della Vergine sulla parete sud e la Discesa agli inferi in quella nord. L'Annunciazione ad est e la Crocifissione ad ovest.

L'arcangelo Gabriele
 
Nel catino absidale, la Vergine platytera affiancata da due angeli. L'arcangelo Gabriele, a sinistra del catino, e la Vergine inginocchiata, a destra, rappresentano l'Annunciazione.

Dormizione della Vergine

L’elegante edificio oblungo a nord ovest del campanile, con numerose absidi e aperture, era il refettorio del monastero, decorato con numerose figure di santi.

Refettorio
 
Note:
 




Cleofe Malatesta e Maddalena Tocco


Cleofe (a volte appare anche come Cleopa) Malatesta, figlia di Malatesta IV - detto Malatesta dei Sonetti per il suo amore per la letteratura e le belle arti - Signore di Rimini e Pesaro e di sua moglie Elisabetta da Varano, sposa Teodoro II Paleologo, despota di Morea il 9 gennaio 1421. Il matrimonio viene celebrato, secondo il rito misto concordato, in Santa Sofia di Costantinopoli insieme a quello tra Giovanni VIII Paleologo e Sofia di Monferrato.
Le nozze di Cleofe sono il risultato di un piano predisposto da papa Martino V per ricomporre lo scisma. Egli scelse «personalmente» Cleofe (assieme a Sofia di Monferrato, destinata a Giovanni VIII, fratello di Teodoro marito di Cleofe).
   Per le proprie nozze Cleofe riceve da Martino V la speciale dispensa che le garantisce il rispetto della fede cattolica. Il futuro marito per iscritto il 29 maggio 1419 le promette «libertà di vivere secondo suo rito, e secondo i costumi d’Italia», e completa autonomia circa le funzioni liturgiche.
Col matrimonio cambia il suo nome in Kleope e nel 1425, su pressione del marito, abbraccia la fede ortodossa.
Nel 1427-28 dà alla luce Elena Paleologina, che nel 1442 andrà sposa al re Giovanni II di Cipro e sarà la madre della regina Carlotta.
Le fattezze rinascimentali italiane dell'ala paleologa del Palazzo dei Despoti o quelle della loggia della Pantanassa fanno pensare ad un suo intervento, o a quello di suoi connazionali, nella progettazione.
Muore il 18 aprile del 1433 dopo lunga e misteriosa malattia e viene sepolta nella chiesa di Hagia Sophia a Mistà (1).
Nel sonetto composto per la sua morte, ritrovato tra le carte di Bessarione, e attribuibile allo stesso Teodoro II, si dice che la sua tomba è contrassegnata da un ritratto che li raffigura entrambi, ma questo ritratto (la cui metà è qui riprodotta) non si trova nella chiesa indicata come luogo di sepoltura.
 

(...) Perchè se in questa immagine ti ho iscritta,
in questa stessa anche io mi sono aggiunto,
volendo essere unito a te da un terzo vincolo
di unione, per spegnere della nostalgia la cupa fiamma,
per vuotare il dolore dall'anima gonfia.
Ma, o morta, e degnamente viva in Dio,
allorchè il fato nella stessa tomba
alle tue ossa le mie congiunga, ai quattro vincoli
tra noi, per me estraniato dai cinque sensi,
aggiungi un quinto altro e migliore:
dividere il piacere e la visione
di Dio con te, che coraggio hai e dai,
e sei dalla mia parte, e sei mia parte”

(1) Silvia Ronchey ipotizza nella morte la longa manus della curia romana. Cleofe «probabilmente assassinata, certamente travolta dal doppio gioco al quale era stata costretta fin dal suo arrivo a Bisanzio», visse cercando un impossibile equilibrio sul filo che collegava il papa ed il consorte. Giocò con coraggio una partita che da sola non poteva vincere. Silvia Ronchey ipotizza l’uccisione di Cleofe per evitare che mettesse al mondo un erede al trono bizantino. Se un figlio maschio fosse nato, il corso della storia avrebbe potuto essere diverso: se la storia potesse farsi con i se
 
Opere composte in occasione delle nozze di Cleofe:
Guillaume Dufay, Vasilissa ergo gaude, mottetto a quattro voci.
 
Discorsi funebri in morte di Cleofe:
Demetrio Pepegomeno, che probabilmente fu il suo medico curante, nella monodia scritta in occasione delle sue esequie,  parla di “morte contro natura” e di “quando una madre muore prima di dare alla luce un figlio”. Sembrerebbe quindi alludere ad una morte per aborto.
Pepegomeno arrivò a Mistrà nel 1415, era uno specialista nella gotta al seguito di Manuele II che fu da questi lasciato in Morea per servire Teodoro II come medico di corte.

La mummia di Mistrà:
Hagia Sophia di Mistrà

Fino al 1999 nel museo attiguo alla Mitropolis era possibile osservare su un manichino i resti di un busto di donna con i suoi abiti e i suoi capelli. La tradizione locale narra che furono ritrovati negli anni '50 da Nikolaos Drandakis, un archeologo ateniese che scavava le tombe di Hagia Sophia, ma al contatto con l'aria la gran parte si polverizzò lasciando solo questi resti. La tomba non era sigillata.
In questa tomba 14 (X rossa sulla planimetria) a 90 cm di profondità fu rinvenuto un torso senza testa con brandelli di tessuto ancora ben conservati. Un po' discosti una treccia che conservava la forma del cranio e delle babbucce ed i resti di un diadema. Questi resti giacevano sopra altri 11 scheletri decomposti.

L'abito indossato dalla "mummia" secondo la ricostruzione dell'equipe di Marielle Martiniani-Reber attualmente conservato nel Museo Archeologico di Mistrà.
 
Ciò lascia ipotizzare che lo scheletro fosse stato traslato qui da una sepoltura più consona al suo lignaggio (la camera a calotta indicata con la lettera A sulla planimetria) e che la traslazione fosse di poco successiva all'inumazione originaria (cfr. S. Ronchey, La "mummia" di Mistrà. Bessarione, Cleope Malatesta ed un abito di damasco veneziano, 2001).
Le indagini condotte dalla Martiniani-Reber sui resti del vestito (il cui tessuto principale è un damasco di seta a motivi vegetali) ne suggeriscono una datazione agli anni 20-30 del XV secolo compatibile per tipologia con una provenienza italiana ed un'alta condizione sociale di chi lo indossava. Il taglio attillato e la profonda scollatura fanno propendere inoltre per la giovane età della mummia confermata anche dai parametri paleoantropologici su di essa rilevati. L'analisi dello scheletro ha anche evidenziato una inspiegabile perforazione dello sterno.

Maddalena (Teodora) Tocco: figlia di Leonardo II Tocco, fratello di Carlo I Tocco, conte palatino di Cefalonia e Zacinto, duca di Leucade e signore dell'Epiro (cfr. l'albero genealogico della famiglia Tocco).
Inizialmente il suo nome era Maddalena, ma fu cambiato in Teodora nel momento delle sue nozze con Costantino Paleologo il 1º luglio 1427. Vissero insieme a Clarentza e a Chlemoutsi da dove Costantino amministrò il territorio del Peloponneso.
Morì nel novembre 1429, nella località di Santomeri di Olenia in Acaia.
Fu in un primo tempo sepolta a Mistrà, molto probabilmente nella Hagia Sofia, successivamente, quando Costantino ascese al soglio imperiale, i suoi resti furono traslati a San Salvatore in chora.
Alcune fonti la dicono madre di una figlia, morta infante.
Diana Gilliland Wright avanza l'ipotesi che entrambe le donne siano morte di parto e che fossero entrambe state assistite da Pepegomenos.


Tommaso Paleologo

  Tommaso Paleologo

 Nell'estate del 1460 Tommaso Paleologo, ultimo despota di Morea ed erede al trono di Bisanzio, dopo la morte del fratello Costantino XI (1453), ottiene asilo dalla Serenissima e a Navarino s'imbarca su una galera veneziana assieme alla moglie Caterina Zaccaria ed ai figli Andrea, Manuele e Zoe (Sophia).
L'esiguo corteo imperiale fa scalo a Patrasso per recuperare le reliquie di S.Andrea, come raffigurato nel ciclo di dipinti commissionati da Francesco Maria Piccolomini, vescovo di Pienza e Montalcino, al pittore fiammingo Bernard Rantwijck circa un secolo dopo gli avvenimenti, originariamente destinati alle pareti della cappella di Sant'Andrea del Palazzo Piccolomini di Siena ed oggi custoditi nel Museo diocesano di Palazzo Borgia a Pienza (cfr. scheda).
Lasciati i familiari a Corfù, presso il monastero del Pantokrator a Chlomos, prosegue per Ancona, recando con sé la testa dell'apostolo Andrea.
Tommaso giunse a Roma il 7 marzo 1461. Il papa gli assegnò un palazzo all'interno del complesso di Santo Spirito in Sassia* ed una rendita di 300 ducati al mese, che divennero 500 con una successiva donazione dei cardinali.
La reliquia fu poi trasferita nella rocca di Narni e finalmente giunse a Roma.
La reliquia è condotta a Roma l’11 aprile 1462, Domenica delle Palme, presso Ponte Milvio, accompagnata dai cardinali Alessandro Oliva, Bessarione e Francesco Todeschini Piccolomini il futuro papa Pio III (1503-1503). Lì rimase, all’interno della torre del ponte, sino al giorno seguente, quando il Papa giunse scortato da un corteo solenne. Presso il ponte, a memoria del passaggio della reliquia, è edificato un tempietto (Tempietto di Sant'Andrea), che fra quattro colonne ospita la statua del santo scolpita da Paolo Romano.
Nel 1462 muore a Corfù la moglie Caterina. La sua tomba si trova nella chiesa dei SS. Giasone e Sosipatro che era il katholikon del monastero presso il quale era stata accolta.
Tommaso Paleologo muore a Roma, nell'ospedale del S.Spirito, nella primavera del 1465.

* La Confraternita del S.Spirito era stata rifondata nel 1446 da papa Eugenio IV e ne facevano parte tutte le grandi famiglie del clan filobizantino. Papa Eugenio IV, i  cardinali Capranica, Torquemada e Bessarione, Ludovico Gonzaga e  la regina Carlotta di Cipro furono membri della confraternita.


Tommaso Paleologo raffigurato nelle vesti di S.Paolo in una statua di Ponte S.Angelo, attribuita a Paolo Romano (1463-1464).
 
Commissionata all'artista da papa Pio II per ornare la nuova cappella di Sant'Andrea in San Pietro, in sostituzione di quella, ritenuta insoddisfacente, realizzata insieme a quella di San Pietro nel 1461-1462 (oggi entrambe nella Bibliotheca pontificum dei Palazzi Apostolici vaticani), venne probabilmente ultimata nel 1464 dopo la morte del pontefice e non fu mai posta in quella collocazione.
Nel 1535 papa Clemente VII la fece collocare su un basamento alla testa meridionale del Ponte S.Angelo en pendant con quella di San Pietro da lui commissionata al Lorenzetto dove a tutt'oggi si trova.


Tommaso Paleologo nel monumento di Pio II a S.Andrea della Valle a Roma che risale al 1470 e che fu trasferito qui dalla Basilica di S.Pietro nel 1614. E' attribuito a Paolo Romano.


Tommaso Paleologo raffigurato nell'affresco di Pinturicchio (1505 c.ca),  nella Libreria Piccolomini del Duomo di Siena, nella scena in cui Pio II ormai morente giunge ad Ancona.

Piero della Francesca, Flagellazione, 1529

Secondo Silvia Ronchey il personaggio barbuto in primo piano è il cardinale Bessarione mentre Pilato avrebbe il volto di Giovanni VIII Paleologo. La sofferenza del Cristo a cui presiede un uomo col turbante (Maometto il Conquistatore) avverrebbe sotto lo sguardo impotente dell'imperatore/Pilato (identificazione rafforzata dai calzari purpurei) e simboleggerebbe la sofferenza di Costantinopoli.
In primo piano Tommaso, vestito di rosso in quanto porfirogenito e a piedi nudi perchè aspira ai calzari imperiali, assisterebbe alla conversazione di Bessarione con un principe occidentale (Niccolò III d'Este che ospitò il Concilio di Ferrara) circa eventuali aiuti. Il quadro, del 1459, riferirebbe quindi eventi del 1439 (Concilio di Ferrara e venuta in Italia di Giovanni VIII e del fratello Tommaso).


Questo personaggio è raffigurato da Piero della Francesca nel ciclo della Leggenda della vera croce dipinto nel coro della basilica francescana di Arezzo ed è databile al 1452. 
 L'identificazione con il profeta Geremia si basa sul riscontro della sua posizione accanto alla Morte di Adamo, verso la quale guarda ed è riguardato da un personaggio all'estremità sinistra. Geremia infatti aveva profetizzato un discendente di Davide che Jahvé farà crescere come il germoglio piantato nella bocca di Adamo, interpretato come allusione al Cristo che lega la scena della nascita dell'Albero della Conoscenza al resto delle storie della Croce.
Il profeta è raffigurato in piedi, su uno sfondo scuro, in mano tiene un cartiglio svolazzante, dove però non c'è iscrizione o non si è conservata. L'elemento più spettacolare è l'illuminazione sperimentale che proviene da dietro a sinistra, dalla finestra cioè che illumina naturalmente la cappella. In questo senso il profeta è come se fosse sbalzato in avanti sul gradino, proiettandosi verso lo spettatore quel tanto che basta per lasciarsi la finestra e la luce alle spalle.
La Ronchey fa notare la rassomiglianza con il giovane scalzo che compare nella Flagellazione e da lei identificato con Tommaso Paleologo.


In questa scena dipinta da Benozzo Gozzoli nel 1459 sulla parete occidentale della Cappella dei Magi di Palazzo Medici Riccardi di Firenze, si riconosce la figura di un anziano su una mula, ritratto di Giuseppe II, patriarca di Costantinopoli nelle vesti di Melchiorre, accanto si nota un diacono a cavallo con in mano la pisside d'oro dell'incenso, più avanti il fratello minore di Lorenzo, Giuliano de' Medici con un leopardo maculato sul cavallo. Nell'interpretazione della Ronchey, nel giovane capocaccia sarebbe invece ritratto Tommaso Paleologo. Nel Chronicon Minus di Sfranze si legge infatti che nel 1437, temendo un attacco di Khalil Pascià, il despota e reggente Costantino inviò anche il fratello minore presso Giovanni VIII che era appena partito per Ferrara. Anche Pero Tafur dice che il giovane Paleologo faceva parte della delegazione bizantina.
Nella stessa scena sono raffigurati Sigismondo Pandolfo Malatesta e Galeazzo Maria Sforza e una serie di dignitari bizantini fra esotiche fiere come linci e falconi. L'arrivo dei Magi  fa infatti da pretesto per rappresentare un preciso soggetto politico che diede lustro alla casata dei Medici, cioè il corteo di personalità che arrivò a Firenze da Ferrara in occasione del Concilio del 1438-1439 (l'anno in cui viene commissionato il ciclo è lo stesso di apertura della Dieta di Mantova).
Il patriarca, l'imperatore e suo fratello (i cui cortei sono raffigurati nelle altre due pareti della cappella) arrivarono effettivamente a Firenze in tre tempi diversi, ciascuno alla testa del proprio seguito ed in quest'ordine.










Morea, Introduzione

La Morea  

1685

  A partire dal XII secolo, il Peloponneso fu chiamato Morea dai Crociati a causa della forma della penisola, somigliante ad una foglia di gelso, ma anche a causa dell'importanza che aveva quell'albero nella penisola.
Nella spartizione dell'impero bizantino seguita alla caduta di Costantinopoli ad opera dell'armata latina della quarta crociata, il Peloponneso fu assegnato al marchese Bonifacio I del Monferrato, designato re di Tessalonica.
Il compito di conquistare la penisola fu dato da Bonifacio a Guglielmo di Champlitte, al quale si unì quale vassallo Goffredo I di Villehardouin, nipote del cronista.
I due conquistarono Patrasso e quindi procedettero sistematicamente alla conquista della Morea, senza incontrare resistenza da parte delle autorità bizantine. Soli seri oppositori furono alcuni potenti nobili (arconti) dell'interno dell'Arcadia e della Laconia, timorosi di perdere le loro terre. La sconfitta dell'esercito di Michele I Ducas Comneno nella battaglia dell'oliveto di Koundouras (1205), nella piana della Messenia, pose però fine ad ogni resistenza, così che Guglielmo di Champlitte poté sottomettere l'intera Arcadia, mentre il Villehardouin, ottenuto in feudo l'importante porto di Kalamata, si impadronì della Messenia.
Con la fine del 1205, Champlitte assunse il titolo di principe d'Acaia con il consenso di Bonifacio di Monferrato. Per consolidare il proprio potere egli cercò di accordarsi con la nobiltà greca, alla quale lasciò il possesso dei loro vasti latifondi, mantenendo una ferrea disciplina all'interno del suo esiguo numero di cavalieri franchi, così da evitare disordini e violenze. La sua correttezza e il suo alto senso della giustizia gli permisero così di affermare uniformemente il proprio potere su tutto il Peloponneso, sebbene nel 1206 dovette accettare che i Veneziani occupassero le due piazzeforti di Modone e Corone, in quella parte della penisola che era stata loro assegnata nella spartizione del 1204. Per compensare la perdita di queste due terre, Champlitte cedette al Villehardouin l'Arcadia, facendone così il più potente barone del principato. Fu pertanto naturale che, quando nel 1208 Champlitte fu costretto a fare ritorno in Borgogna per recuperare l'eredità del proprio fratello maggiore, Villehardouin fu da lui lasciato quale balivo per governare il principato in sua assenza. Champlitte morì nel corso del viaggio verso la Francia e di lì a poco la stessa sorte toccò al nipote Ugo, da lui designato quale suo luogotenente, così che l'intera eredità degli Champlitte ricadde su un bambino di neppure un anno.
Villehardouin, con il consenso dei baroni franchi, si proclamò allora Principe d'Acaia e riuscì ad ottenere da papa Innocenzo III e dall'Imperatore latino di Costantinopoli il riconoscimento della sua Signorìa sull'Acaia, l'Elide, la Messenia e su parte dell'Arcadia.

PRINCIPATO D'ACAIA (1205-1432)

1205-1209 Guglielmo di Champlitte
1209-1218 Goffredo I di Villehardouin
1218-1245 Goffredo II di Villehardouin, primogenito del precedente. Sposò Agnese, figlia di Pietro di Courtenay, imperatore di Costantinopoli. Alla sua morte fu sepolto nella chiesa di San Giacomo, nella capitale Andravida.
1245-1278 Guglielmo II  Villehardhouin, fratello di Goffredo II. Sotto il suo governo il principato raggiunse l'apice della sua potenza ma iniziò già con lui a declinare; costruì la fortezza di Mistrà come capitale del principato. Nel 1249 conquistò Monemvasia. Nel 1251 fece costruire la fortezza di Maina (detta anche Megali Maina o Grand Magne) nella penisola del Mani.
Sposò in prime nozze (1239) Agnese di Toucy, figlia di un notabile dell'impero latino di Costantinopoli. Nel 1246 sposò in seconde nozze Carintana delle Carceri, figlia di Rizzardo, signore di un terziere dell'Eubea.
Rimasto vedovo (1255), nel 1259 sposò in terze nozze la figlia del suo alleato, il despota d'Epiro Michele II Dukas Comneno, Anna (Agnese) Angelina Comnena, da cui ebbe le figlie Isabella e Margherita, ma fu sconfitto duramente dai bizantini a Pelagonia nel 1259, proprio per  la defezione dei suoi alleati epiroti.

Battaglia di Pelagonia (settembre 1259)
Nel 1259 l'imperatore niceno Michele VIII affidò a suo fratello Giovanni Paleologo, che era il Sebastocrator, il comando di un forte contingente di truppe che si trovava nei Balcani, affiancandogli in subordine il generale Alessio Strategopulo che ricopriva la carica di Gran Domestico e il generale Giovanni Raul Petraliphas. Poco dopo Michele VIII diede ordine di attaccare i suoi nemici, fra cui molti latini, e anche parecchi ducati greci formatisi dopo la caduta di Costantinopoli per mano crociata nel 1204, per impossessarsi della Tessaglia. Così nel 1259 l'esercito niceno conquistò la Tessaglia, ma nel settembre dello stesso anno la lega greco-latina formata dagli epiroti del Despotato, dai franchi del Principato d'Acaia, e dai normanni del Regno di Sicilia, le cui forze si erano congiunte ad Elassona, marciò contro l'esercito niceno.
I due eserciti si affrontarono nella piana di Pelagonia (nei pressi dell'attuale città di Bitola in Macedonia).
L'entità delle forze in campo non è del tutto chiara, probabilmente l'esercito niceno, rafforzato da mercenari occidentali, schierava 8.000 fanti e 1.600 cavalieri mentre le forze alleate erano nettamente superiori di numero. Ragione per la quale i comandanti niceni fecero marciare anche i contadini inquadrati come fossero reggimenti e inviarono nel campo epirota un falso disertore che ingigantisse nel descriverla la consistenza delle loro forze.
Michele II, despota d'Epiro e Guglielmo II di Villehardhouin, principe d'Acaia, si fidavano poco l'uno dell'altro. Il despota Michele II e il figlio Giovanni “il bastardo” – nato dalla relazione extraconiugale tra il despota e la sua amante Gaggrini – che comandava un contingente di valacchi assegnatigli dal suocero Taron, ritenevano infatti che, appena si fossero scontrati coi niceni, i latini sarebbero fuggiti in modo che l'esercito del despotato potesse essere massacrato. Inoltre lo storico bizantino Giorgio Pachymeres, racconta che Giovanni passò dalla parte dei bizantini, perché Guglielmo II di Villehardouin lo aveva insultato ricordandogli come fosse nato da una relazione extraconiugale, in più la sera prima Giovanni aveva convinto molti soldati a disertare, a causa del suo litigio con Guglielmo, cosicchè anche Michele II abbandonò il campo con il contingente epirota.

La piana di Pelagonia
 
Quando iniziò lo scontro, Giovanni Paleologo si ritrovò a combattere solamente contro la cavalleria pesante di Manfredi di Sicilia (circa 400 cavalieri catafratti tedeschi) e di Villehardouin (che schierava il fior fiore della nobiltà latina di Grecia).
Giovanni Paleologo dispose in prima linea i mercenari tedeschi, i suoi migliori soldati, dietro questi dispose i soldati serbi e ungheresi e in una terza linea, se stesso e tutti i Greci, mentre gli arcieri cumani e ungheresi occupavano i fianchi dello schieramento.
Dal momento che Giovanni Paleologo aveva schierato in prima linea i mercenari tedeschi che servivano nel suo esercito, Villehardhouin fece lo stesso con i suoi cavalieri tedeschi e ne affidò il comando al barone di Karytaina mentre egli stesso prese il comando della seconda linea di cavalleria, dietro cui ne schierò una terza e infine due linee di fanteria.
La battaglia ebbe inizio quando le due prime linee vennero a contatto, il barone di Karytaina disarcionò e uccise il comandante nemico e la prima linea bizantina fu subito in grossa difficoltà. L'intervento degli arcieri a cavallo cumani e ungheresi – che pur inutili contro le pesanti armature dei cavalieri latini ne falcidiarono le cavalcature rendendoli facile preda della fanteria – rovesciò le sorti dello scontro e la seconda linea di cavalleria al comando dello stesso Villeardhouin intervenuta a sostegno subì la stessa sorte della prima.
L'esercito della lega antinicena era in rotta, tutti i suoi componenti stavano scappando, nessuno più resisteva, per i bizantini fu un compito facile inseguire e massacrare i resti della armata nemica.
I cavalieri di Manfredi si arresero, mente Villehardouin fuggì nascondendosi in un pagliaio nei pressi di Castoria, ma, raggiunto e catturato, fu riconosciuto per via dei suoi denti sporgenti e condotto al cospetto di Giovanni Paleologo.
Rimase in cattività fino al 1262, allorché, per essere liberato, dovette consegnare al ricostituito Impero bizantino le fortezze di Mistrà, Monemvasia e di Maina.

Principato d'Acaia e Morea bizantina nel 1278

Nel 1267, con il Trattato di Viterbo, Carlo I d'Angiò ottenne dall'esautorato imperatore latino di Costantinopoli - Baldovino II - l'alto dominio sul Principato d'Acaia.
Nel 1271 in virtù del matrimonio celebrato tra la figlia primogenita di Villerdhouin, Isabella, ed il figlio del sovrano angioino, Filippo d'Angiò, quest'ultimo assunse anche il dominio diretto del Principato. Filippo morì però nel 1277 senza lasciare eredi.
Nel 1278, alla morte di Guglielmo II, il dominio diretto tornò ai sovrani angioini.
1287-1289, Nicola II di Saint Omer, Signore di Tebe, ricopre la carica di bailo del Principato per conto del regno angioino di Napoli.
Nel 1289, a seguito del nuovo matrimonio di Isabella con il conestabile del regno di Napoli Florent d'Hainault, Carlo II d'Angiò restituì alla coppia il dominio diretto sul Principato*.
1289-1297 Isabella di Villehardhouin con il marito Florent d'Hainault.
Rimasta nuovamente vedova, nel 1301 si risposa con Filippo di Savoia.
1301-1307 Isabella di Villehardhouin con il marito Filippo di Savoia
Per il suo piglio autoritario, Filippo di Savoia s'inimicò i baroni locali e nel 1304 fu costretto ad accettare l'istituzione di un parlamento che avrebbe limitato i suoi poteri. Nel 1307 Carlo II d'Angiò, a seguito di una rivolta dei contadini vessati dall'eccessiva tassazione, privò Filippo e Isabella del dominio e v'infeudò il figlio Filippo I di Taranto.
Da questo momento il Principato fu squassato da una serie di conflitti feudali tra i vari pretendenti al titolo frantumandosi in baronie locali, di fatto indipendenti dal fatiscente potere centrale, che furono progressivamente riassorbite dalla provincia bizantina di Morea.
1307-1313 Filippo I d'Angiò, principe di Taranto.
1313-1318 Matilde d'Hainault, figlia di Isabella di Villehardouin e Florent d'Hainault. Nel 1313 sposò in seconde nozze Luigi di Borgogna, re titolare di Tessalonica, che morì nel 1316.

Battaglia di Manolada (5 luglio 1316)
Nella piana di Manolada nella regione dell'Elide si affrontarono gli eserciti di Luigi di Borgogna e Ferdinando di Majorca, pretendenti al trono del Principato in virtù dei rispettivi matrimoni. Luigi di Borgogna era infatti il marito di Matilde d'Hainault mentre l'infante di Majorca aveva sposato Isabella di Sabran, a cui la madre Margherita di Villehardouin, sorella minore di Isabella, aveva ceduto i suoi diritti sul Principato. L'esercito borgognone, rafforzato da 2.000 greci inviati dallo stratego bizantino di Mistrà Michele Cantacuzeno, avanzava da Patrasso verso Clarentza dove Ferdinando si era asserragliato in attesa di ricevere rinforzi da Majorca e dal Ducato di Atene. Temendo che questi non arrivassero in tempo e di finire assediato a Clarentza senza rifornimenti, Ferdinando lasciò la città ed andò incontro al nemico nonostante la forte inferiorità numerica.
Dopo un successo iniziale, durante il quale Ferdinando riuscì a sfondare la prima fila dell'esercito nemico comandata da Nicola Orsini (futuro conte di Cefalonia e despota d'Epiro), un attacco laterale delle truppe scelte di Luigi di Borgogna diede la svolta decisiva allo scontro. Ferdinando, le cui truppe si dispersero in una rotta rovinosa, rinunciò a fuggire e fu catturato da un ignoto soldato, che lo decapitò. Luigi di Borgogna non potè ad ogni modo godere a lungo della vittoria, morendo avvelenato un mese dopo la battaglia e lasciando la giovane Matilde al governo del traballante Principato.

Nel 1318 Filippo I d'Angiò fece rapire e portare a Napoli Matilde, costringendola a sposare il fratello Giovanni, duca di Durazzo, al fine di ristabilire il controllo angioino sul Principato. Matilde - che nel frattempo aveva sposato segretamente Ugo di La Palice - rifiutò però di concedersi al nuovo marito ed il matrimonio fu annullato nel 1321. Sposando Ugo di La Palice, Matilde aveva però violato il lascito della madre Isabella secondo il quale le figlie titolari del principato di Acaia non avrebbero potuto contrarre matrimonio senza il consenso del sovrano di Napoli. Il Principato rimase quindi a Giovanni di Durazzo e Matilde fu rinchiusa nel Castel dell'Ovo a Napoli.
 
1318-1333 Giovanni d'Angiò-Durazzo, duca di Durazzo.
1333-1364 Roberto di Taranto, principe di Taranto.
1364-1373 Filippo II d'Angiò, principe di Taranto.
1373-1381 Giovanna I di Napoli.
1381-1383 Giacomo del Balzo, principe di Taranto. Ereditò il titolo alla morte dello zio Filippo II d'Angiò, fratello della madre Margherita. Per stabilire il suo controllo sul Principato, contesogli da Giovanna I di Napoli, richiese i servigi della Compagnia di Navarra, il cui comandante, Mahiot di Coquerel, nominò balivo del principato.
1383-1386 Carlo III (Angiò-Durazzo) di Napoli. Alla morte di Giacomo del Balzo, re Carlo III di Napoli ereditò la titolarità del Principato senza mai riuscire a prenderne possesso, questo continuò infatti ad essere governato de facto dal comandante della Compagnia Mahiot di Coquerel.
1386-1396 Ladislao I (Angiò-Durazzo) di Napoli. Come suo padre non riuscì a ristabilire il controllo sul Principato che continuò ad essere governato dalla Compagnia di Navarra, al cui comando, alla morte di Mahiot (1386), era subentrato il suo luogotenente Pedro Bordo di San Superano.

Ladislao I e Giovanna II di Napoli
Andrea Guardia e aiuti, Monumento funebre di Ladislao I, 1414-1428
chiesa di S.Giovanni a Carbonara, Napoli

1396-1402 Pedro Bordo di San Superano. Nel 1396 San Superano si accordò con Ladislao per ottenere la titolarità del principato in cambio di 3.000 ducati, cosa che avvenne senza peraltro che questi saldasse mai completamente il suo debito. San Superano rafforzò la sua posizione sposando Maria Zaccaria, figlia di Centurione I Zaccaria, titolare della baronia d'Arcadia (l'attuale Kyparissia) e Gran Conestabile del Principato. Alla sua morte, Maria assunse la reggenza del Principato.
1402-1404 Maria Zaccaria (reggente).
Nel 1404 il re di Napoli Ladislao I insignì Centurione II Zaccaria – che aveva ereditato dal padre Andronico Asen Zaccaria la baronia d'Arcadia – del titolo di Principe d'Acaia. Centurione cercò di rafforzare la sua posizione sposando Creusa Tocco, figlia di Leonardo II Tocco, Gran Conestabile del Despotato d'Epiro e sorella di Maddalena (Teodora) moglie di Costantino Dragaze (il futuro despota di Morea e imperatore di Bisanzio). Ciononostante fu ripetutamente attaccato dai suoi nuovi parenti.
Nel 1429, assediato senza speranza da Tommaso Paleologo nella rocca di Chalandritsa, accettò di dargli in moglie la sua unica erede** Caterina che alla sua morte avrebbe portato in dote ai bizantini la baronia d'Arcadia che era tutto ciò che restava del Principato latino d'Acaia. Ritiratosi nella sua baronia, Centurione II morì nel 1432.

* L'investitura era subordinata ad una clausola: sarebbe decaduta se Isabella o la figlia o la nipote si fossero risposate senza il sovrano consenso. Questa clausola fece valere Carlo II spodestò Isabella nel 1307, giacché aveva sposato Filippo di Savoia senza chiedere il suo consenso.

** Centurione ebbe anche un figlio illegittimo, Giovanni Asen Zaccaria, che nel 1446 - quando il sultano Murad II distrusse l'Hexamilion ed inflisse una pesante sconfitta a Costantino Dragazes allora despota di Morea – fu imprigionato da Tommaso Paleologo nella fortezza di Chlemoutsi insieme alla vedova di Centurione, Creusa Tocco, per aver capeggiato una rivolta dei baroni locali e da cui evase nel 1453 per porsi nuovamente alla testa di una rivolta contro i Paleologi.

***
La provincia bizantina di Morea venne inizialmente organizzata come governatorato: lo stratego, dopo alcuni anni in cui governò da Monemvasia, ebbe sede a Mistrà.
Al fine di evitare pericolose spinte centrifughe, la permanenza in Morea dei governatori, in genere legati alla famiglia regnante, era molto breve, per lo più cambiati con cadenza annuale, ed il primo fu Michele Cantacuzeno, avo del futuro basileus.

DESPOTATO DI MOREA (1308-1460)
La pratica di sostituire annualmente i governatori di Morea ebbe termine nel 1308, quando Andronico II, molto interessato a questa regione, pose al governo della Morea Michele Cantacuzeno, padre del futuro Giovanni VI.

1308-1316 Michele Cantecuzeno (stratego)
1316-1322 Andronico Asen (stratego)
1349-1380 Manuele Cantacuzeno (figlio di Giovanni VI, despota)
1380-1383 Matteo Cantacuzeno (fratello del precedente, despota)
1383-1384 Demetrio Cantacuzeno (figlio del precedente) proclamò l'indipendenza del despotato ma fu sconfitto da Teodoro Paleologo, figlio dell'imperatore Giovanni V che regnò al suo posto come despota.
1384-1407 Teodoro I Paleologo, sposa, senza avere figli, Bartolomea Acciaiouli, figlia di Neri I, duca di Atene.  Poco prima di morire prese l'abito monastico. E' sepolto nella Aphendikò di Mistrà.
1407-1443 Teodoro II Paleologo, figlio di Manuele II, che riceve l'incarico appena undicenne e a cui viene affiancato il protostrator Manuele Frangopulo.
Sposa Cleofe Malatesta da cui ha Elena Paleologa che andrà in sposa a Giovanni II di Cipro.

Teodoro II Paleologo, despota di Morea (1407-1443)
(1408)
Museo del Louvre, Parigi
 
La situazione si complicò nel dicembre del 1427, quando Giovanni VIII intervenne in Morea accompagnato dagli altri due fratelli, Costantino Dragaze e Tommaso, cui diede in appannaggio ampi territori del despotato: a Costantino il nord-ovest e a Tommaso un territorio vicino alle colonie veneziane di Corone e Modone. A Teodoro, che mai era stato in buoni rapporti con i fratelli, restava Mistrà. L'intervento fu l'occasione per un'opera di espansione militare in grande stile. La flotta romea sconfisse i Tocco alle Echinadi, di fronte al golfo di Patrasso, e Costantino pose l'assedio a Clarenza. La guerra ebbe una pausa in occasione del matrimonio tra Costantino stesso e Maddalena Tocco, che portò in dote al despota l'intero Peloponneso settentrionale, ma proseguì, ed ebbe il suo culmine nel 1430 con la conquista di Patrasso, feudo dell'arcivescovo Pandolfo Malatesta, tra l'altro fratello della moglie di Teodoro II ed imparentato con papa Martino V (1417-1425).
Nel 1429 Tommaso Paleologo, lasciato il suo appannaggio in cambio della città di Clarenza, assedia Centurione II Zaccaria a Chalandritsa e gli estorce la promessa di dargli in moglie la figlia Caterina che alla morte del padre (1432) gli porterà in eredità ciò che rimaneva del Principato di Acaia.
Nel 1435 Costantino Dragaze conquistò l'Attica, penetrò in Beozia e solo l'intervento ottomano riuscì a fermarlo. L'intero Peloponneso - eccetto i possedimenti veneziani di Modone, Corone, Navarino in Messenia, Argo e Nauplia nell'Argolide - e parte della Grecia continentale, erano nuovamente in mano ai bizantini.
Dal 1443 Costantino e Tommaso agirono da soli, poiché Teodoro II - col secondo fine d'esser vicino alla Capitale in caso di morte del basileus, da tempo malato - aveva ceduto Mistrà a Costantino, in cambio della città di Selimbria.
1443-1448 Costantino Dragaze. Dopo aver provveduto alla ricostruzione dell'Hexamilion (1), invase nuovamente l'Attica, costrinse il duca di Atene Nerio II Acciaiuoli a giurargli fedeltà e valicò il Pindo. Sul finire del 1446 il sultano turco Murad II reagì all'espansionismo del despota, fece bombardare per un mese l'Hexamilion che cadde il 10 dicembre e l'esercito ottomano dilagò per la Morea, ritirandosi, dopo averla messa a ferro e fuoco ed aver imposto ai Paleologi il pagamento di un forte tributo annuo, con 60.000 prigionieri. Alla morte del fratello Giovanni VIII (31 ottobre 1448), per volere della madre Elena, Costantino venne proclamato imperatore (2).
1449-1460 Tommaso e Demetrio Paleologo.
Durante l'assedio di Costantinopoli il sultano inviò un esercito in Morea per impedire che da lì giungessero soccorsi alla città.
Dopo la caduta di Costantinopoli consentì che i despoti continuassero a regnarvi come suoi vassalli.
Poco dopo 30.000 albanesi al comando di Pietro Bua insorsero contro i Paleologi, a questa rivolta si affiancò quella dei greci guidati da Manuele Cantacuzeno, nipote di Demetrio Cantacuzeno che era stato l'ultimo membro della famiglia a governare la Morea bizantina (1383-1384), nonché quella della componente latina guidata da Giovanni Asen Zaccaria, figlio illegittimo di Centurione II, evaso dalla fortezza di Chlemoutsi dove era stato rinchiuso. Per sedare la rivolta, i due fratelli furono costretti a ricomporre i dissidi, unire le forze e a richiedere il sostegno della Sublime Porta di cui erano vassalli. Nell'ottobre del 1454 un esercito ottomano, al comando del governatore di Tessalonica, Turahakan Beg, intervenne quindi in Morea e soffocò la rivolta.
Dopo un breve periodo di tregua, le ostilità tra i due fratelli si riaccesero. Tommaso si alleò con il Papa e i genovesi e sconfisse il fratello Demetrio che propendeva per gli ottomani, ma questi inviarono un esercito che costrinse Tommaso a rifugiarsi a Corfù e successivamente in Italia.
Maometto II non confermò però Demetrio nella carica di despota della Morea ed il 29 maggio 1460 l'esercito turco entrò a Mistrà, in cambio gli concesse invece in appannaggio la città di Ainos (l'attuale Enez, in Turchia) e alcuni possedimenti nelle isole di Imbro, Lemno, Samotracia e Tasos nonché un palazzo ad Adrianopoli e ne sposò la figlia Elena. Nel 1467, persa la benevolenza del sultano (forse a causa di alcune malversazioni del cognato Matteo Paleologo Asen), fu esiliato a Didymoteicho per essere riammesso a corte due anni dopo. Nel 1471, dopo la morte della seconda moglie Teodora Asanina, prese gli abiti monacali con il nome di Davide ma morì nel corso dello stesso anno.

Suddivisione dei territori del Despotato all'epoca della coabitazione tra Demetrio e Tommaso

***

Nel 1464 la città bassa di Mistrà ed alcune fortezze moreote vennero brevemente occupate da Sigismondo Malatesta che fece traslare i resti del filosofo Gemisto Pletone nel tempio malatestiano di Rimini.(cfr.la spedizione in Morea di Sigismondo Malatesta).

1687-1715 conquistata dalla Lega Santa, la Morea rimase sotto controllo veneziano fino al 1715 (cfr. guerra di Morea).

Note:

(1) L'Hexamilion era una linea fortificata che sbarrava l'istmo di Corinto per tutta la sua larghezza (appunto “sei miglia”). Edificata per la prima volta durante il regno di Teodosio II (408-450) per difendere il Peloponneso dalle invasioni barbariche, cadde in disuso verso il VII secolo. Rimesso in opera da Manuele II a partire dal 1415, era stato distrutto da Murad II nel 1423.
Il tracciato dell'Hexamilion

(2) Secondo alcune fonti, il 6 gennaio 1449, Costantino Dragaze, despota di Morea, fu incoronato imperatore con il nome di Costantino XI nella chiesa di San Demetrio a Mistrà, alla presenza del fratello Tommaso e di due alti funzionari costantinopolitani inviati dall'imperatrice madre, Alessio Filantropeno Lascaris e Manuele Paleologo Iagari. Gran parte delle fonti sostengono tuttavia che Costantino Dragaze fu semplicemente proclamato imperatore, mentre la cerimonia d'incoronazione non ebbe affatto luogo.