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sabato 9 marzo 2024

Niceforo II Foca (963-969)

 Niceforo II Foca (963-969)

Nato intorno al 912 in una famiglia di antiche tradizioni militari – sia il padre Barda, sia il nonno Niceforo raggiunsero il grado di Domestikos delle Scholae - fu avviato giovanissimo alla carriera militare. Nel 945, durante il regno di Costantino VII, diviene strategos del thema degli Anatolici, carica che di solito preludeva alla nomina a comandante in capo dell'esercito. Nel 954, infatti, subentra al padre Barda – che era stato ripetutamente sconfitto dagli arabi - al comando dell'esercito di Bisanzio e passa all'offensiva contro gli arabi dell'emirato di Aleppo.


Niceforo II Foca
katholikon del Monastero della Gran Lavra, 1535, 
Monte Athos

Nel 959 l'imperatore Romano II sdoppia il comando supremo militare affiancando a Niceforo il giovane fratello Leone Foca come Domestikos delle Scholae occidentali.

L'anno successivo gli viene affidato il comando della spedizione contro l'emirato di Creta.
Il 6 marzo 961, dopo nove mesi di assedio entra a Candia (l'attuale Iraklion) e poco dopo, riportata l'intera isola sotto controllo imperiale, rientra a Costantinopoli dove gli viene tributato non il trionfo ma un'ovazione nell'Ippodromo.

Niceforo II Foca
da Codex Mutinensis, Gr.122, fol.209, 1425 c.ca
Biblioteca Estense, Modena

Niceforo si spostò quindi sul fronte orientale e nel dicembre 962 prese e mise a sacco Aleppo infliggendo un duro colpo al prestigio dell'emiro hamanide.
Molto popolare tra i suoi soldati e temuto dai nemici – era soprannominato la morte bianca dei Saraceni - il 15 marzo del 963, fu raggiunto dalla notizia dell'improvvisa morta di Romano II mentre si trovava nella roccaforte dei Foca a Cesarea di Cappadocia, fu raggiunto dalla notizia dell'improvvisa morta di Romano II. Mentre a Costantinopoli la vedova di Romano, Teofano, assumeva la reggenza per i suoi figli Basilio II e Costantino VIII, Niceforo fu proclamato imperatore dalle truppe. Il 14 agosto, il generale entrò in città e, grazie anche all'appoggio del patriarca Polieucte e di Basilio Lecapeno (1), sbaragliò la resistenza opposta dal parakoimomenos Giuseppe Bringas e due giorni dopo fu incoronato in Santa Sofia.
Basilio Lecapeno riottenne la carica di parakoimomenos che già aveva ricoperto sotto Costantino VII e fu insignito del titolo di proedros, dignità assimilabile a quella di presidente del Senato, ma di fatto puramente rappresentativa. Il fratello Leone Foca mantiene il comando delle Scholae occidentali mentre al comando di quelle orientali, Niceforo promuove uno dei suoi più fidati luogotenenti, lo stratego del thema degli Anatolici, Giovanni Zimisce. Il 20 dicembre, infine, in cambio della promessa di garantire la successione ai suoi figli, sposa nella Nea Ekklesia la vedova di Romano II, Teofano, legittimando ulteriormente la sua posizione.

Oltre ad essere un grande soldato, Niceforo era un asceta – da giovane voleva farsi monaco e dormiva in terra – e un fanatico religioso (chiese alle autorità religiose, senza ottenerlo, che tutti i suoi soldati morti combattendo contro i musulmani fossero proclamati martiri della fede) che sognava la riconquista delle perdute provincie dell'Asia minore. Zimisce fu inviato sul fronte orientale con l'incarico di prendere Adana che cadde e fu rasa al suolo prima della fine dell'anno. L'anno seguente Niceforo guidò la campagna in prima persona e prese Mopsuestia e Tarso completando la riconquista della Cilicia che era in mano agli Arabi dal VII secolo. Sempre nel 964, una spedizione guidata da uno dei suoi generali, Niceta Chalkoutzis, riportò anche l'isola di Cipro nell'orbita imperiale.

Dopo la conquista della Cilicia, l'imperatore, per ragioni non del tutto chiare, perse del tutto la fiducia in Giovanni Zimisce che rimosse da tutte le cariche e confinò nei suoi possedimenti lontano dalla capitale.

Nel 966 riprese l'offensiva in Asia minore. L'imperatore assediò senza successo Antiochia ma conquistò altre piazzeforti e impose a Tripoli e Damasco il pagamento di un tributo. Nel 968 assediò nuovamente Antiochia ma, giacchè i tempi dell'assedio si protraevano, rientrò a Costantinopoli lasciando a Michele Bourtzas e allo statopedarca Petrus (2) il compito di prendere la città per fame. Il 28 ottobre del 969 finalmente la città si arrese.

L'estensione dell'impero bizantino dopo le conquiste di Niceforo II e del suo successore Giovanni I Zimisce

Poche settimane dopo la caduta di Antiochia – nel dicembre del 969 – Niceforo venne assassinato nella sua camera da letto da una congiura guidata da Giovanni Zimisce ma a cui non furono estranei l'imperatrice Teofano e il parakoimomenos Basilio Lecapeno. Fu sepolto nella chiesa dei SS.Apostoli.

Oltre che per le conquiste territoriali Niceforo Foca è ricordato anche per le sue fondazioni ecclesiastiche. Tra queste anche quella della Gran Lavra, il più antico monastero athonita. Dopo la conquista di Creta, Niceforo destinò parte del bottino di guerra alla fondazione del monastero ad opera del monaco Atanasio – a cui in seguito fu dedicato il katholikon – di cui era stato allievo e che lo aveva accompagnato nell'impresa.


Note:

(1) Figlio illegittimo dell'imperatore Romano I Lecapeno e di una sua concubina (forse una schiava di origini bulgare), Basilio Lecapeno era nato tra il 910 e il 920 e fu probabilmente castrato per ragioni politiche già in età infantile. Legatissimo alla sorellastra Elena – moglie di Costantino VII – durante il colpo di stato dei suoi fratellastri (944) si schierò dalla parte del cognato ricevendone in cambio titoli e cariche, tra cui quella di megas baioulos, cioè responsabile dell’educazione dell’erede al trono (nella fattispecie, del giovane figlio di Costantino ed Elena, Romano). Nel 947 divenne parakoimomenos, che letteralmente indicava “l’incaricato di proteggere il sonno dell’imperatore”, ma che in realtà all'epoca, dato il rapporto di prossimità con l'imperatore che implicava, era assimilabile a quella di gran ciambellano. Sostituito nella carica con Giuseppe Bringas da Romano II, appoggiò il colpo di stato di Niceforo mettendogli a disposizione tremila uomini armati da lui assoldati.

(2) Petrus era un eunuco al servizio dei Foca che, adottato dal fratello dell'imperatore Leone Foca, intraprese la carriera militare. La carica di "Statopedarca" fu inventata ad hoc giacchè, in quanto eunuco, non poteva accedere a quella di Domestikos delle Scholae.


martedì 27 febbraio 2024

La chiesa di Niceforo a Cavusin, Cappadocia

La chiesa di Niceforo a Cavusin, Cappadocia

La cosiddetta chiesa di Niceforo (1) è una chiesa rupestre che si trova nel villaggio di Cavusin, a pochi chilometri da Goreme, in Cappadocia. Fu costruita e decorata durante il regno di Niceforo II Foca, probabilmente nel 963-964, per volontà di donatori locali che intendevano celebrare l'imperatore originario di queste terre. Non è nota la dedicazione originaria della chiesa ma potrebbe essere stata dedicata ai Tassiarchi, che ricorrono a più riprese nelle decorazioni parietali. Presenta una pianta trapezoidale a navata unica, sopravanzata da un nartece la cui parte occidentale è completamente crollata lasciando a vista un affresco che raffigura appunto gli arcangeli Michele e Gabriele.


All'interno, nell'absidiola di sinistra è ritratta la famiglia imperiale con al centro Niceforo II e, alla sua destra la moglie Teofano con un'altra figura femminile (forse la moglie del fratello dell'imperatore, Leone) mentre alla sinistra dell'imperatore si dispongono il padre Barda e il fratello Leone

Nel riquadro soprastante l'absidiola è raffigurato un episodio veterotestamentario poco consueto: l'apparizione dell'arcangelo Michele a Giosuè sotto le mura di Gerico (2), a simboleggiare che il mandato divino concesso a Giosuè è adesso rinnovato all'imperatore che conduce i suoi eserciti alla riconquista della Terrasanta. Il condottiero israelita è raffigurato due volte, una in piedi e l'altra nel momento in cui s'inginocchia.

Giosuè s'inginocchia davanti all'arcangelo Michele

Sulla parete opposta, nella fascia inferiore, sono raffigurati i Quaranta Martiri di Sebaste, che erano molto popolari tra i soldati dei thema di Anatolia e Cappadocia. 


Il corteo è preceduto da due cavalieri, in cui Jerphanion identifica i due donatori. 


Giovanni Zimisce (?) e il magister Melias cavalcano alla testa dei Quaranta Martiri di Sebaste

Entrambi i cavalieri indossano il klibanion (la corazza a lamelle di cuoio) e sotto una cotta di maglia (lorikion) mentre impugnano una lancia lunga secondo l'uso della cavalleria pesante (catafratti) dell'esercito bizantino. Il secondo è identificato dall'iscrizione come Magister Melias (magister era un grado dell'esercito bizantino) (3). Per il primo, nel cui caso l'iscrizione è ormai illeggibile, avanza l'ipotesi che possa invece trattarsi di Giovanni Zimisce, che all'epoca era ancora il fidato braccio destro dell'imperatore. Jerphanion ipotizza inoltre che l'affresco possa essere stato commissionato per celebrare la nomina di Zimisce a Domestikos delle Scholae orientali. La raffigurazione del loro comandante alla testa dei Quaranta Martiri avrebbe avuto anche lo scopo di rafforzare nelle truppe il richiamo alla guerra santa contro i musulmani proclamata da Niceforo.


Note:

(1) La chiesa è nota anche come “chiesa colombaia”, giacchè a questo uso venne adibita in epoca ottomana.

(2) Mentre Giosuè era presso Gerico, alzò gli occhi ed ecco, vide un uomo in piedi davanti a sé che aveva in mano una spada sguainata. Giosuè si diresse verso di lui e gli chiese: «Tu sei per noi o per i nostri avversari?». Rispose: «No, io sono il capo dell'esercito del Signore. Giungo proprio ora». Allora Giosuè cadde con la faccia a terra, si prostrò e gli disse: «Che dice il mio signore al suo servo?». Rispose il capo dell'esercito del Signore a Giosuè: «Togliti i sandali dai tuoi piedi, perché il luogo sul quale tu stai è santo». Giosuè così fece. (Giosuè, V, 13-15)

(3) Secondo la tradizione Melias o Meliton sarebbe anche il nome del più giovane dei martiri di Sebastea nonché quello di un generale di origini armene dell'epoca di Niceforo e Zimisce, ma non sarebbe inusuale che un personaggio storico con lo stesso nome di un santo rappresenti allo stesso tempo se stesso e il santo di cui porta il nome.


Narrativa moderna e contemporanea

Sonia Aggio, Nella stanza dell'imperatore, Fazi, 2024
Il romanzo ripercorre le tappe della carriera di Giovanni Zimisce, brillante esponente dell'aristocrazia militare anatolica – era imparentato con le potenti famiglie dei Curcuas, dei Foca e degli Sclera - che culminò con la sua ascesa al trono imperiale. La spettacolare riconquista bizantina della Cilicia, della Siria occidentale e della Palestina settentrionale, intrapresa da Niceforo II Foca e dallo stesso Zimisce – che, nella seconda metà del X secolo, condusse le armi di Bisanzio in vista di Gerusalemme, è narrata con accuratezza storica, così come gli intrighi di corte che favorirono l'ascesa al trono dei due imperatori soldato al di fuori della linea dinastica macedone. Scarso il ricorso a personaggi di fantasia mentre quelli storici sono tratteggiati in maniera molto attendibile e convincente anche nei rapporti che intercorsero tra loro. Più fantasiose le descrizioni dei luoghi.




venerdì 17 novembre 2023

L'imperatore Alessandro (912-913)

L'imperatore Alessandro (912-913)

Eudocia Ingerina con i figli Leone (a sn.) e Alessandro (a ds.)
illustrazione tratta da Omelie di Gregorio Nazianzeno, 879-883
Par.gr. 510, fol.Br
Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi

Terzogenito di Basilio I e Eudocia Ingerina Alessandro era nato il 23 novembre dell'872 (1). Il padre lo associò al trono nell'879. Dopo la morte del padre fu tenuto ai margini del potere dal fratello Leone VI (886-912), che diffidò di lui per tutta la vita, condusse un'esistenza vacua dedita al piacere e all'alcool fin quando non rimase unico imperatore.
Le principali fonti primarie che narrano gli eventi succedutisi durante i suo breve regno sono essenzialmente la Cronaca del Logoteta, opera di uno storico e poeta bizantino vissuto nel X secolo e la Cronaca di Psamathia, un testo agiografico dedicato al patriarca Eutimio (907-912) – è noto infatti anche come Vita di Eutimio - scritto da un anonimo monaco del monastero di Psamathia – dove il patriarca era stato igumeno - tra il 920 ed il 925 e sono entrambe decisamente ostili all'imperatore.

L'attentato a Leone VI
da un'edizione miniata prodotta in Sicilia nel XII secolo della Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze 
(Madrid Skylitzes)
Biblioteca Nacional de Espana, Madrid

L'11 maggio del 903, Leone VI, mentre presenziava ad una funzione nella chiesa di San Mocio, fu gravemente ferito al capo da un uomo che brandiva un bastone. L'attentatore – un certo Stiliano - prima di essere messo al rogo nell'Ippodromo fu interrogato sotto tortura ma non rivelò il nome di eventuali complici. In città circolarono voci sul possibile coinvolgimento di Alessandro, il fratello minore dell'imperatore ma non si riuscì a provare nulla.
Sul letto di morte, notandolo tra gli astanti, Leone avrebbe pronunciato la frase: “Eccolo qua, tredici mesi di malora!”, profetizzando l'effettiva durata che avrebbe avuto il regno del fratello.
Come già detto, l'imperatore Leone VI, considerandolo comunque infido, ebbe sempre cura di tenere il fratello minore ben lontano dalla gestione della cosa pubblica, cosicchè Alessandro, rimasto imperatore unico alla morte del fratello (11 maggio 912) – nonché reggente per il nipote Costantino – si adoperò subito per estrometterne gli uomini che erano stati più vicini e devoti a Leone. L'anziano patriarca Eutimio – cha aveva favorito la dispensa che aveva permesso a Leone di contrarre il quarto matrimonio - fu umiliato con il taglio della barba, percosso e costretto all'esilio. Al suo posto, Alessandro richiamò Nicola Mystikos, che invece era stato defenestrato da Leone, con la cui compiacenza ripudiò la moglie legittima (non se ne conosce il nome) per sposare la su amante. Destituì quindi dalla carica di comandante della marina imperiale l'ammiraglio Imerio, marito della sorella di Zoe Carbonopsina, peraltro reduce da una rovinosa sconfitta nelle acque di Chio ad opera degli arabi. La stessa Carbonopsina, ultima moglie di Leone VI e madre dell'erede al trono, fu cacciata dal Sacro Palazzo. Per contro elevò al rango di rettore di Santa Sofia il suo compagno di partite a polo, Giovanni Lazares, che morì poco dopo durante una partita allo tzycanisterion della residenza imperiale di Hebdomon.
Minato nel fisico da una vita di eccessi, divenne anche impotente. Nel tentativo di risolvere il problema si rivolse a dei maghi che lo convinsero che la statua di un cinghiale che si trovava all'Ippodromo era il suo doppio e che le loro esistenze erano strettamente connesse l'una all'altra (con ciò sottintendendo che conduceva una vita da maiale) e che avrebbe dovuto provvedere la statua dei denti e del sesso che gli mancavano. Ciò fatto, l'imperatore indisse anche delle corse in onore della statua e prelevò dalle chiese candelabri ed altri arredi per decorare l'Ippodromo suscitando scandalo.

Per quanto attiene la politica estera, le fonti primarie imputano alla sua dissennatezza (2) la responsabilità di aver creato i presupposti per la ripresa del rovinoso conflitto con i bulgari. Alessandro si sarebbe rifiutato di pagare il tributo annuale concordato dal suo predecessore e avrebbe scacciato in malo modo l'ambasceria inviata da Simeone di Bulgaria. E' però probabile che Simeone non chiedesse soltanto il rispetto degli accordi presi ma pretendesse qualcosa di più – come il titolo di imperatore (tzar) dei Bulgari che gli verrà concesso in seguito – e che Alessandro non fu disposto a concedergli.

Sulle circostanze della sua morte esistono due versioni. Secondo la prima, riportata dalla cronaca di Simeone Logoteta (X sec.), Alessandro, dopo un lauto pranzo abbondantemente innaffiato di vino, nonostante il caldo, volle recarsi a giocare a polo nello tzycanisterion che si trovava all'interno del Sacro Palazzo e qui ebbe un colpo apoplettico a seguito del quale morì due giorni dopo, il 6 giugno 913. La Vita di Eutimio colloca invece la scena nel palco imperiale dell'Ippodromo dove l'imperatore, mentre commetteva gli atti sacrileghi sopra descritti, si sarebbe accasciato al suolo colpito dall'ira del Signore e condotto moribondo a Palazzo. Le sue esequie furono condotte in maniera sciatta e sbrigativa – il cadavere cadde fuori dalla bara e ne emanò un gran fetore – mentre l'aristocrazia non partecipò al corteo funebre che fu seguito solo da popolani. Prima di morire Alessandro nominò il Consiglio di reggenza che avrebbe governato durante la minore età del nipote Costantino e vi pose a capo il patriarca Nicola Mystikos.

                                Il nipote Costantino e altri notabili al capezzale di Alessandro
                                                          (Madrid Skylitzes)

Di lui resta un magnifico ritratto a figura intera nella chiesa di Santa Sofia, sia pure in una collocazione piuttosto appartata, analizzato nei dettagli qui.

L'imperatore Alessandro 
912-913
chiesa di Santa Sofia

 
Durante il suo regno – nel luglio del 912 – si registrò infine il passaggio della cometa di Halley, considerata annunciatrice di sciagure.


Note:

(1) Michele III aveva fatto sposare la sua amante Eudocia Ingerina al suo parakoimomenos Basilio per poterla avere comodamente a disposizione a Palazzo senza destare scandalo. Essendo Alessandro l'unico dei tre figli maschi di Basilio ed Eudocia ad essere nato dopo la morte di Michele III (867) era anche l'unico ad essere sicuramente figlio di Basilio.

(2) La Cronaca del logoteta parla di “insensata follia” dell'imperatore.


sabato 28 ottobre 2023

La profezia incisa sul sarcofago di Costantino il grande

 La profezia incisa sul sarcofago di Costantino il grande


Non pochi manoscritti, a partire dal XV secolo, riportano un crittogramma che sarebbe stato inciso sul sarcofago di Costantino il grande e la sua interpretazione che sarebbe stata opera di Gennadio Scholario.

Il sarcofago attribuito a Costantino il grande oggi nell'atrio della chiesa di Sant'Irene

Nella prima indizione, il regno di Ismaele chiamato Mohammed sconfiggerà la stirpe dei Paleologi e conquisterà la città dei sette colli (Heptapholos= Costantinopoli) e regnerà su essa: impererà su molti popoli, devasterà le isole fino al Ponto Eusino, compirà distruzioni alle foci dell'Istro (il Danubio). Nell'ottava indizione sottometterà il Peloponneso. Nella nona indizione farà una campagna nelle regioni settentrionali. Nella decima indizione sconfiggerà i Dalmati e ritornerà di nuovo dopo qualche tempo per fare una grande guerra contro i dalmati e in parte li distruggerà.

E le moltitudini e le nazioni (lett. "Tribù") d'Occidente, [numerose come] foglie,insieme porteranno guerra per terra e per mare e sconfiggeranno Ismaele il cui discendente regnerà per un brevissimo periodo di tempo. E la razza bionda, insieme con i precedenti possessori, sconfiggerà l'intero Ismaele e conquisterà la città dei sette colli con i [suoi] privilegi. Poi provocheranno una selvaggia guerra civile fino alla quinta ora e una voce griderà tre volte:
“Fermatevi, fermatevi, e con timore affrettatevi verso l'area sulla destra [e] troverete un uomo coraggioso, mirabile e robusto. Costui avrete come vostro capo perché lui è il mio diletto; scegliendolo compirete la mia volontà”.

Gennadio avrebbe decrittato il testo 1101 anni dopo la morte di Costantino (erroneamente posta dal redattore del resoconto nel 329 mentre l'imperatore morì nel 337) quindi nel 1430 o nel 1438.
Non c'è però alcuna traccia di questa interpretazione negli scritti attribuiti a Gennadio o spuri. Oltre a ciò il testo contiene riferimenti cronologici alle imprese di Maometto II estremamente precisi: prima indizione (1453), caduta di Costantinopoli; ottava indizione (1460), conquista della Morea; nona indizione (1461), conquista delle coste del Mar Nero; decima indizione (1462), conquista della Bosnia.
Si tratta quindi molto probabilmente un falso creato nel 1463 per avallare la crociata per la riconquista di Costantinopoli che papa Pio II Piccolomini stava cercando di promuovere e al cui esito positivo allude chiaramente il testo: E le moltitudini e le nazioni d'Occidente, [numerose come] foglie,insieme porteranno guerra per terra e per mare e sconfiggeranno Ismaele il cui discendente regnerà per un brevissimo periodo di tempo.

La morte del papa (15 agosto 1464) determinò però il naufragio del progetto di riconquista della città da parte dell'Occidente.
Gennadio Scholario, all'epoca patriarca di Costantinopoli (1), di cui era peraltro nota la tendenza ad interpretare profeticamente gli avvenimenti del suo tempo, è presumibilmente chiamato in causa per avvalorare l'autenticità del documento.

immagine tratta dal Cod.Berolin., gr.297, (fol.62), XVI sec.


In molti dei manoscritti che riportano il crittogramma e la sua decodifica da parte di Gennadio, figura infatti anche un'illustrazione che che ritrae il patriarca seduto accanto al sepolcro di Costantino nell'atto di trascrivere l'interpretazione.

Note

(1) Gennadio Scholario ricoprì la carica di Patriarca di Costantinopoli con il nome di Gennadio II in tre diversi periodi (1453-1457, 1462, 1464-1465)


giovedì 12 ottobre 2023

Gli ultimi anni dell'impero d'Occidente (455-476)

 Gli ultimi anni dell'impero d'Occidente (455-476)


Ricimero (405-472): Di padre svevo e madre visigota, nacque intorno al 405 e trascorse la sua giovinezza alla corte dell'imperatore romano d'Occidente Valentiniano III, dove si distinse combattendo assieme a Maggioriano – di cui divenne amico fraterno – agli ordini del magister militum Ezio. Fu il vero uomo forte dell'impero d'Occidente nell'ultimo ventennio della sua esistenza.

Dopo gli assassinii di Ezio (454) e di Valentiniano III (455), Petronio Massimo, membro di una delle più illustri famiglie dell'aristocrazia romana – la gens Anicia – che non era estraneo a nessuno dei due omicidi, forte dell'appoggio del Senato ed elargendo denaro agli alti funzionari di palazzo, riuscì a farsi proclamare imperatore, nonostante la vedova di Valentiniano, l'augusta Licinia Eudossia, gli preferisse Maggioriano che era subentrato ad Ezio al comando dell'esercito.

Petronio Massimo (17 marzo 455-31 maggio 455): per consolidare la sua posizione costrinse l'augusta a non rispettare il lutto ed a sposarlo. Elevò il figlio avuto dalla prima moglie, Palladio, al rango di cesare e gli diede in moglie Eudocia, una delle figlie dell'augusta. Licinia Eudossia pensò bene di appellarsi Genserico, il re dei Vandali, al cui figlio Unerico, Eudocia era stata promessa in sposa da Valentiniano. Organizzata la spedizione, Genserico salpò da Cartagine e sbarcò a Porto dove pose il suo campo. I militari in stanza nella capitale capirono che la città era persa e si ammutinarono. L’imperatore tentò la fuga ma rimase ucciso, probabilmente in una sommossa che coinvolse anche la popolazione locale. Così i Vandali poterono entrare in città senza incontrare resistenza. L'unica personalità che tentò di opporsi alla devastazione fu papa Leone Magno, che trattò con Genserico. Il papa lasciò ai Vandali la possibilità di spogliare la città dei suoi averi, ma in cambio non avrebbero dovuto infierire sulla popolazione inerme. Ma i Vandali rispettarono l'accordo solo in parte. Molti membri dell’aristocrazia senatoria vennero fatti prigionieri, per poi chiedere un riscatto. Inoltre, molti artigiani vennero condotti, in schiavitù, a Cartagine. Genserico, rientrando a Cartagine, si portò appresso anche l'augusta e le sue due figlie, Placidia e Eudocia.


Karl Pavlovich Briullov, Il sacco di Roma, 1833-1835
Tretyakov gallery, Mosca
Al centro della composizione si nota, con la testa coronata, l'imperatrice Licinia Eudossia che abbraccia la figlia Eudocia. Sulla destra, in piedi sul sagrato di una chiesa, papa Leone Magno

Marco Mecilio Avito (455-456): nato intorno al 395 ad Augustonemetum (l'attuale Clermont-Ferrant) era un esponente di spicco dell'aristocrazia gallo-romana. Dopo aver raggiunto posizioni di rilievo nella carriera civile, si era dedicato a quella militare servendo sotto il magister militum Flavio Ezio nelle campagne contro gli Iutungi e i Norici (430/431) e contro i Burgundi (436). Tornato in Alvernia – probabilmente con il grado di magister militum per Gallias – era poi stato nominato prefetto del pretorio delle Gallie nel 439 e si era ritirato a vita privata l'anno seguente. Durante il suo breve regno, Petronio Massimo lo aveva richiamato in servizio affidandogli il comando dell'esercito e lo aveva inviato in missione diplomatica presso il sovrano visigoto Teodorico II – che Avito conosceva bene – per confermare il loro status di foederati e garantirsene l'appoggio. Quando giunse la notizia della morte di Petronio Massimo, Avito si trovava a Tolosa presso la corte di Teodorico II. Il re goto non perse l'occasione e lo acclamò imperatore (9 luglio 455). Il 5 agosto giunse la ratifica del Senato romano e solo allora Avito mosse verso l'Italia alla testa di truppe gallo-romane rafforzate da un contingente goto. Si fermò a Ravenna, dove lasciò un distaccamento di goti al comando di un certo Remisto che nel frattempo aveva fatto patrizio e nominato magister militum praesentalis, e entrò a Roma il 21 di settembre. Il 1° gennaio 456 assunse come da tradizione il titolo di console, ma non fu riconosciuto dall'imperatore d'Oriente Marciano che per quell'anno nominò altri due consoli.
Avito si trovò a dover fronteggiare l'intraprendenza della flotta vandala che spadroneggiava nelle acque del Mediterraneo compiendo incursioni nei possedimenti romani e rendendo difficile l'afflusso di derrate nella capitale. Recimero riuscì a sconfiggere la flotta vandala al largo della Corsica e battè il loro esercito nei pressi di Agrigento. Nel frattempo la scarsità di viveri, aggravata dalla necessità di sfamare le truppe che 'imperatore si era portato dietro, e l'ampia distribuzione di cariche pubbliche e prebende a cittadini gallo-romani, aveva reso Avito alquanto impopolare nella capitale. Oltracciò, rimasto a corto di liquidità, era stato costretto a congedare il contingente goto. Forti della popolarità derivatagli dalle vittorie contro i Goti, Ricimero e Maggioriano, che comandava la guardia imperiale, insorsero e costrinsero Avito a fuggire verso il nord. Ricimero lo fece destituire dal Senato e fece assassinare a Ravenna il magister militum Remisto (17 settembre 456).
Nel frattempo Avito aveva raggiunto la città di Arelate (Arles) nelle Gallie, dove aveva raccolto delle truppe a lui fedeli. Nominato Messiano nuovo magister militum rientrò in Italia dove fu però sconfitto da Ricimero nella battaglia di Piacenza. Fatto prigioniero e obbligato a deporre le insegne imperiali, ebbe salva la vita e fu consacrato vescovo di Piacenza da Eusebio, allora metropolita di Milano (1).

Maggioriano (457-461): Nato in una famiglia di militari (il nonno fu magister equitum sotto Teodosio I) cominciò la carriera combattendo in Gallia agli ordini di Ezio. Ebbe come compagni d'armi due brillanti ufficiali di origine barbara, Ricimero e Egidio, legandosi al primo con una duratura amicizia.
  
Maggioriano
particolare del frontespizio di una copia del Breviario di Alarico, 803-814
Biblioteca Nazionale Francese, Parigi

Nel 450 l'imperatore Valentiniano III progettò di dargli in moglie la figlia Placidia allo scopo di assicurarsi una linea di successione. Il progetto fu ostacolato da Ezio, il quale aspirava a sua volta a imparentarsi con la famiglia imperiale, che congedò Maggoriano e lo costrinse a ritirarsi nella sua campagna. Dopo l'assassinio di Ezio (454), Valentiniano lo richiamò in servizio e, alla morte di questi, il nuovo imperatore, Petronio Massimo, lo nominò comes domesticorum (comandante della guardia imperiale), carica che mantenne anche sotto Avito. Spodestato Avito, Maggioriano non avanzò la sua candidatura e Leone I, l'imperatore d'Oriente a cui spettava nominare il successore, tardò a farlo forse con l'intento di riunire sotto il suo scettro le due metà dell'impero. Nel febbraio del 457 nominò comunque Maggioriano magister militum per Occidentem ed elevò Ricimero al rango di patrizio. Il primo di aprile, l'esercito, acquartierato nei pressi di Ravenna, proclamò augusto Maggioriano, anche se molto probabilmente il riconoscimento ufficiale da parte di Leone I non avvenne prima di dicembre. Nel discorso d'insediamento che tenne in Senato il 28 dicembre è manifesta la sua volontà di governare assieme a Ricimero che aveva posto al comando dell'esercito.
Maggioriano provvide quindi a rafforzare l'esercito, reclutando molti mercenari barbari, e la flotta per contrastare il dominio sul mare dei Vandali stanziati in Africa.
Volse quindi la sua attenzione alle Gallie dove i sostenitori di Avito avevano dato luogo ad una rivolta capeggiata da un certo Marcello. Inviò quindi Egidio, insignito del titolo di magister militum per Galliam, che liberò Lione e la regione circostante ed entrò ad Arelate dove fu assediato dai Visigoti. L'imperatore stesso, affiancato dal generale Nepoziano, il magister militum praesentalis, guidò l'esercito che ruppe l'assedio e sbaragliò i Visigoti ristabilendo il controllo imperiale sulla Gallia meridionale. Per la prima volta dopo più di mezzo secolo un imperatore occidentale si era fatto carico di organizzare un esercito e di condurlo personalmente in battaglia.
Maggioriano riuscì anche a convincere il potente governatore dell'Illirico, Marcellino, che, potendo contare su un forte esercito, si era reso di fatto semindipendente dal governo centrale a partire dalla morte di Ezio, a riconoscere nuovamente l'autorità imperiale e a collaborare alla difesa dei suoi territori.
L'imperatore mise quindi mano ai preparativi per la riconquista della provincia d'Africa. Nel 459 mosse con il grosso dell'esercito dalla Liguria e penetrò nella Spagna occupata dai Visigoti mentre Nepoziano e Sunierico sconfiggevano i Suebi a Lucus Augusti e conquistavano Scallabis in Lusitania.
Nel mese di maggio del 461 Maggioriano raggiunse la provincia Cartaginense, dove aveva allestito la flotta con cui intendeva riconquistare l'Africa. Tuttavia i Vandali, avvertiti da traditori dei preparativi dell'imperatore e dell'ubicazione della flotta romana, con un attacco repentino, riuscirono a catturare le navi romane, mandando a monte i piani dell'imperatore che fu costretto ad annullare la spedizione e a negoziare una pace onerosa.
Rientrato ad Arelate, Maggioriano congedò l'esercito che non poteva più stipendiare e prese la via dell'Italia accompagnato solo dalla sua guardia personale.
Nel frattempo Ricimero, che l'imperatore non aveva mai voluto a fianco nelle sue campagne militari, rimasto a Ravenna aveva coagulato attorno a sé l'opposizione. Le riforme introdotte da Maggioriano avevano infatti ridotto i privilegi del clero e favorito l'aristocrazia provinciale rispetto a quella italica e senatoriale. Ricimero lo raggiunse a Tortona, nei pressi di Piacenza, lo fece arrestare e deporre e, dopo averlo torturato per cinque giorni, lo fece decapitare (7 agosto 461).


Libio Severo (461-465): eliminato Maggioriano, Ricimero fece eleggere dal Senato Libio Severo, un senatore lucano nato intorno al 420 che godeva del favore dell'aristocrazia italica e che riteneva di poter manovrare a suo piacimento. Libio Severo non fu però riconosciuto dall'imperatore d'Oriente Leone I, né da Egidio, governatore delle Gallie, né da Marcellino, governatore dell'Illirico (che entrò così nella sfera d'influenza dell'impero d'Oriente). Il dominio di Severo si riduceva quindi alla sola Italia.
Per accattivarsi l'appoggio del clero, abrogò le leggi di Maggioriano che ne avevano limitato i privilegi e varò altri provvedimenti a favore dell'aristocrazia italica.
Severo nominò Agrippino – un uomo di Ricimero – magister militum per Gallias e per ottenere l'appoggio dei Visigoti concesse loro la città di Narbona (462), dandogli così accesso al Mediterraneo e separando i territori controllati da Egidio da quelli del resto dell'impero. Durante tutto il suo regno, Severo dovette fronteggiare anche le scorrerie dei Vandali in Sicilia e nel meridione, che Genserico intensificò in risposta alla mancata elezione al soglio imperiale del suo candidato Anicio Olibrio (2).
Libio Severo morì molto probabilmente di morte naturale nell'autunno del 465.

Procopio Antemio (467-472): alla morte di Severo, Genserico avanzò nuovamente la candidatura di Anicio Olibrio, lanciando le scorrerie dei suoi pirati anche contro l'impero d'Oriente sulle coste dell'Illirico e della Grecia per premere su Leone I. Nella primavera del 467, Leone I ruppe gli indugi e nominò imperatore d'Occidente Antemio Procopio, esponente di una illustre famiglia costantinopolitana. Il padre – Procopio - era stato magister militum per Orientem e poteva vantare una discendenza dalla dinastia di Costantino il grande, mentre il nonno materno – Antemio - fu prefetto del pretorio d'Oriente per un decennio (404-415), console nel 405, nonché reggente di fatto durante la minore età di Teodosio II dopo la morte di Arcadio nel 408 (3).
Nel 453 Procopio Antemio aveva sposato Elia Marcia Eufemia, figlia dell'imperatore Marciano (450-457), ed era stato elevato al rango di patrizio. Nel 454 ricoprì la carica di magister militum per Orientem (4) e l'anno successivo ottenne il consolato. Antemio mantenne la carica di magister militum anche sotto il successore del suocero, Leone I, e nel 460 ottenne un'importante vittoria in Illirico contro gli Ostrogoti. Nel 466 sconfisse gli unni di Hormidac che avevano attraversato la frontiera danubiana e invaso la Dacia.
Antemio raggiunse l'Italia e Roma nella primavera del 467, accompagnato da un esercito comandato dal magister militum per Illyricum Marcellino e fu proclamato imperatore in una località tra il terzo e l'ottavo miglio da Roma, il 12 aprile, primo imperatore greco dopo Giuliano. Stabilitosi a Roma, l'imperatore strinse con con Ricimero un'alleanza matrimoniale, dandogli in sposa la figlia Alipia. Nel 471, il matrimonio del figlio Flavio Marciano (5) con la figlia di Leone I - Leonzia – rafforzò inoltre i suoi legami con la casa regnante d'Oriente.
In accordo con Leone I, Antemio si accinse quindi ad affrontare il problema dell'eliminazione del regno vandalico che aveva sottratto all'impero le ricche provincie africane da cui partivano le scorrerie di pirati che martoriavano la Sicilia ed il sud d'Italia (6).
Nel 468 una flotta di oltre mille navi che trasportava una forza di sbarco di circa 100.000 uomini salpò da Costantinopoli alla volta di Cartagine al comando di Basilisco, cognato dell'imperatore. Nel frattempo Marcellino aveva attaccato la Sardegna e un terzo contingente, al comando del generale Eraclio di Edessa, era sbarcato sulle coste libiche.
La flotta imperiale, dopo alcune vittoriose scaramucce con la flotta vandala, gettò l'ancora davanti a Capo Bon, a circa 60 chilometri da Cartagine. Genserico chiese quindi cinque giorni di tempo per presentare le condizioni di pace. Nella notte fece invece lanciare moltissimi brulotti contro le navi imperiali prive di sorveglianza e dietro questi seguì l'attacco della flotta vandala. Gli imperiali persero gran parte delle navi e ripiegarono confusamente rinunciando allo sbarco. Dopo questo disastro Marcellino lasciò la Sardegna e passò in Sicilia, dove trovò la morte per mano di uno dei suoi capitani, forse istigato da Ricimero, mentre Eraclio si ritirò nella Tripolitania dove rimase attestato per due anni.
Persa la speranza di riconquistare le provincie africane, Antemio rivolse la sua attenzione alle Gallie.
L'impero controllava ormai soltanto le province meridionali mentre i visigoti di Eurico si erano incuneati separando da queste l'Alvernia, che era governata dal figlio di Avito, Ecdicio, e il cosiddetto Dominio di Siagro più a nord. Quest'ultimo dal 465 era governato appunto da Siagro, figlio di Egidio, uno dei luogotenenti di Maggioriano che non aveva riconosciuto Avito come imperatore.
Nel 471 l'imperatore inviò un esercito al comando del figlio Antemiolo non ancora ventenne, coadiuvato dai generali Torisario, Everdingo ed Ermiano in disaccordo fra loro e di scarsa affidabilità. Muovendo da Arelate Antemiolo passò il Rodano e fu sbaragliato da Eurico, trovando anche la morte in battaglia. Nel frattempo si era consumata la rottura definitiva con Ricimero. Nel 470, colpito da una grave malattia, Antemio era stato sul punto di morire.Tornato in salute, decise di colpire un personaggio vicino al gruppo di Ricimero, l’ex magister officiorum e patricius Romano. Costui fu considerato responsabile di trame volte all’eliminazione dell’imperatore; fu arrestato, condannato e giustiziato. La reazione di Ricimero fu molto dura. Lasciò Roma con il seguito di seimila soldati e con i suoi bucellarii, e si ritirò a Milano. L’Italia, in questo modo, si trovò divisa: sotto il controllo dell’imperatore legittimo le regioni del centro-sud; sotto il governo del magister militum barbarico il nord. Ricevuto l'aiuto dei Burgundi, il magister militum calò su Roma e la strinse d'assedio. La città e il Senato dell'urbe, per quanto divisi tra partigiani delle opposte fazioni, sostennero l'assedio per lunghi mesi.
Leone I inviò in Occidente Anicio Olibrio con la duplice missione di mettere pace tra Ricimero e Antemio e, poi, di trattare col re dei Vandali Genserico (il cui figlio aveva sposato la cognata di Olibrio, vedi sopra)); in realtà l'ambasciata era un modo di sbarazzarsi di Olibrio, che credeva in combutta coi Vandali, e di Ricimero: inviò infatti ad Antemio un secondo messaggero con l'ordine di uccidere Ricimero e Olibrio, ma il messaggio indirizzato all'imperatore d'Occidente cadde nelle mani del capo goto, che lo mostrò a Olibrio. Olibrio raggiunse il campo di Ricimero nell'aprile del 472 e fu proclamato imperatore. Nel frattempo le milizie di Ricimero avevano isolato Antemio e i suoi sostenitori nei palazzi imperiali del Palatino. Privi di rifornimenti, l'11 luglio questi tentarono una sortita disperata. L'imperatore cercò di trovare asilo nella basilica di San Crisogono ma fu raggiunto sul sagrato della chiesa e trucidato da Gundobaudo, figlio della sorella di Ricimero.

Anicio Olibrio (472): esponente di una prestigiosa famiglia senatoriale romana, si era trasferito a Costantinopoli dopo il sacco di Roma del 455. Grazie al matrimonio con Placidia (454), la figlia minore di Valentiniano III, era anche imparentato con la dinastia teodosiana. La sorella della moglie, inoltre, aveva sposato Unerico, il figlio di Genserico ed erede al trono dei Vandali. Nonostante le sue ascendenze non ebbe l'appoggio dell'aristocrazia romana – che si era in gran parte schierata con Antemio - né del popolo a causa del saccheggio compiuto dalle milizie di Ricimero alla cui testa Olibrio era entrato in città. Il mese successivo alla sua proclamazione, inoltre, morì Ricimero, il suo principale alleato, sostituito nel ruolo di magister militum dal nipote Gundobaudo che Olibrio elevò al rango di patrizio che era stato dello zio. Poco o niente è noto degli atti del suo governo che durò appena pochi mesi. Olibrio Anicio si ammalò infatti quasi subito di idropisia e morì tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre del 472. Dal matrimonio con Placidia ebbe una sola figlia femmina, Anicia Giuliana.


Glicerio (473-474): dopo la morte di Olibrio – che comunque non aveva riconosciuto – Leone I tardò a nominare il suo successore. Stanco di aspettare, Gundobaudo, il nuovo uomo forte d'Occidente, nel marzo del 473 proclamò a Ravenna imperatore Glicerio. Probabilmente dalmata di nascita, Glicerio non proveniva dalle fila dell'aristocrazia, comandava però la guardia palatina (comes domesticorum) durante il breve regno di Olibrio.
Durante il suo regno Glicerio respinse con le armi un tentativo d'invasione dell'Italia dei Visigoti di Eurico ma non riuscì ad impedire la caduta di Arelate e Marsiglia. Per via diplomatica riuscì invece a scongiurare la calata degli Ostrogoti del re Vidimero. Una sua legge contro la simonia, varata probabilmente per accattivarsi il favore del clero l'11 marzo 473, è anche l'ultima emanata da un imperatore d'Occidente di cui si abbia notizia.
La sua poco ortodossa proclamazione a imperatore e il sospetto che fosse poco più di una marionetta al servizio di Gundobaudo, convinsero Leone I a non riconoscerlo e a nominare imperatore d'Occidente il governatore della Dalmazia Giulio Nepote.
Giulio Nepote sbarcò ad Ostia nel giugno del 474 e assunse la porpora mentre Glicerio, abbandonato da Gundobaudo (7) al suo destino, si arrese senza combattere. Ebbe così salva la vita e fu nominato vescovo di Salona.


Giulio Nepote (474-475; de jure 478-480): figlio di Nepoziano, che fu magister militum praesentialis sotto Maggioriano, e della sorella del potente governatore (comes rei militaris) dell'Illirico Marcellino che, a partire dall'assassinio di Ezio (454), governò la regione – che formalmente rientrava nella sfera del trono d'Occidente - in maniera di fatto semindipendente, iniziò la carriera sostituendo lo zio materno, assassinato nel 468, nel governo dell'Illirico. S'imparentò con la famiglia di Leone I, sposando una nipote della moglie Verina.
Salito al trono, Nepote nominò magister militum ed elevò al patriziato, Ecdicio Avito, il figlio del defunto imperatore. Afranio Siagrio, il figlio di Egidio che governava una enclave romana nel nord della Gallia nota come “Dominio di Siagrio” ormai separata dal resto dell'impero, riconobbe l'autorità di Nepote e fu nominato magister militum per Gallias. L'imperatore negoziò quindi un accordo con i Visigoti di Eurico che cedettero la Provenza – occupata durante il regno di Glicerio - in cambio della città di Clermont-Ferrand e della regione dell'Alvernia. Minor fortuna ebbe con i Vandali con i quali – non potendo sostenere la guerra da solo giacchè l'impero d'Oriente aveva firmato una pace separata nel 468 – fu costretto a firmare un trattato di pace in cui riconosceva il loro dominio sulle provincie africane, la Sardegna e le Baleari. La cessione dell'Alvernia inoltre gli inimicò la locale aristocrazia gallo-romana a cui apparteneva anche Ecdicio. Probabilmente per questa ragione l'imperatore lo sostituì al comando dell'esercito con Flavio Oreste, un generale di origini barbare.
Il 28 agosto 475 Flavio Oreste si ribellò all'Imperatore e, alla testa di un esercito che doveva essere forse inviato contro i visigoti, prese il controllo di Ravenna e costrinse Nepote a fuggire a Salona in Dalmazia. Dopo un'attesa di un paio di mesi, Oreste proclamò imperatore il figlio Romolo appena quattordicenne.

Romolo Augustolo (475-476): Figlio di Flavio Oreste e Flavia Serena, una donna di stirpe romana figlia del comes del Norico Romolo, fu proclamato imperatore dal padre che, essendo di origini barbare, non poteva ascendere al trono in prima persona, il 31 ottobre del 475. Romolo Augustolo non fu però riconosciuto dal collega d'Oriente, Zenone (8). Il potere de facto, inoltre, fu esercitato dal padre.

Domenico Parodi, Romolo Augustolo, 1725
Palazzo reale, Genova

Nel 476 alcune truppe mercenarie composte da Eruli, Sciri e Turcilingi chiesero di ottenere delle terre in Italia, che Oreste però non concesse. Questi allora si rivoltarono sotto la guida del capo sciro Odoacre, eleggendolo re il 23 agosto. Oreste si rinchiuse Pavia, confidando nelle possenti fortificazioni della città, ma Odoacre prese la città e catturò Oreste che fece giustiziare a Piacenza. Dopo avere sconfitto e ucciso anche il fratello di Oreste, Paolo, entrò Ravenna e il 4 settembre 476 costrinse Romolo Augustolo ad abdicare (9).

L'Impero romano d'Occidente al momento 
della deposizione di Romolo Augustolo

Anzichè nominare un imperatore fantoccio, Odoacre inviò a Costantinopoli le insegne imperiali – a significare che non c'era più bisogno d'un imperatore d'Occidente – e chiese di poter governare l'Italia con il titolo di patrizio. Zenone riconobbe a Odoacre l'autorità legale per governare in Italia in qualità di magister militum negandogli però il titolo di patrizio (10) - che probabilmente gli fu invece concesso dal Senato romano - e suggerendogli di riaccogliere in Italia Giulio Nepote come imperatore d'Occidente, cosa che Odoacre non fece mai. Odoacre battè anche moneta con l'effigie di Nepote che rimase imperatore de jure – ma senza esercitare alcun potere effettivo – fino al suo assassinio nel 480 (11). Odoacre governò quindi la diocesi italiana come vicario di Zenone, secondo i dettami del diritto pubblico e privato romano, riconoscendo formalmente Giulio Nepote come augusto legittimo fino alla sua morte, sia nella monetazione che negli atti pubblici.

Note:

(1) dopo poco tempo, evidentemente temendo per la propria vita, Avito tentò di fuggire in direzione di Arelate, ma venne presto raggiunto da Maggioriano, che assediò il santuario in cui il sovrano deposto si era rifugiato e dove dopo alcuni giorni trovò la morte.

(2) Il figlio di Genserico, Unerico, aveva sposato la figlia maggiore di Valentiniano III, Eudocia, mentre Anicio Olibrio ne aveva sposato la sorella minore, Placidia. Il sovrano vandalo avrebbe quindi gradito sul trono d'occidente un imperatore a cui era comunque legato da vincoli di parentela.

(3) A Flavio Antemio si deve l'edificazione delle mura dette teodosiane che furono erette durante la sua prefettura. Come tale è ricordato in un'epigrafe incisa sull'architarve della Porta Pempton che recita: “con una forte architrave rafforzò le mura della porta Puseo, che non fu meno grande di Antemio”



(4) A quell'epoca nell'esercito d'Oriente esistevano due gruppi di armate centrali (praesentalis) e quindi due magister militum, l'altro era il potente generale di origine alana Ardaburio Aspar.

(5) Dal matrimonio con Elia Marcia Eufemia nacquero cinque figli: Antemiolo, Flavio Marciano, Procopio Antemio, Romolo e Alipia

(6) Per contribuire al finanziamento della spedizione che ammontò a 7.408.000 solidi aurei, Antemio impiegò per buona parte il suo patrimonio personale.

(7) Al momento dello sbarco di Nepote, Gundobaudo – che pure avrebbe avuto le forze necessarie per contrastarlo – si era allontanato da Roma e si trovava nelle Gallie. Probabilmente il magister militum giudicò inutile e controproducente difendere un imperatore che non godeva del sostegno del suo collega orientale né dell'aristocrazia senatoriale.

(8) Romolo Augustolo fu riconosciuto da Basilisco che usurpò il trono d'Oriente per un breve periodo (9 gennaio 475-agosto 476)

(9) Forse in considerazione della giovane età, Odoacre risparmiò la vita all'imperatore deposto, confinandolo nel castellum lucullianum, una splendida villa napoletana del II secolo, i cui resti si trovano in parte sotto Castel dell'Ovo, e concedendogli un cospicuo appannaggio.

(10) Zenone rispose alla richiesta di Odoacre sostenendo che la nomina a patrizio spettava all'imperatore d'Occidente ancora in carica.

(11) Giulio Nepote fu assassinato nel palazzo fatto costruire da Diocleziano a Spalato (vicino Salona) dove risiedeva da due suoi alti ufficiali, i comes Ovida e Viatore, forse istigati dall'ex imperatore Glicerio che all'epoca era vescovo di Salona.


martedì 8 agosto 2023

Chiesa di San Giovanni Evangelista, Ravenna

 Chiesa di San Giovanni Evangelista, Ravenna

La chiesa venne costruita per volontà di Galla Placidia in seguito ad un voto fatto all'evangelista durante la perigliosa traversata che da Costantinopoli la ricondusse a Ravenna nel 424: viste le pessime condizioni atmosferiche, l'augusta promise che, se avesse toccato terra, avrebbe costruito una chiesa dedicata a Giovanni nel luogo dello sbarco. La costruzione iniziò nel 425 e terminò nel 434, si tratta quindi della più antica basilica ravennate.
Verso l’anno Mille venne costruito sulla destra della chiesa un monastero e la chiesa fu affidata ai monaci benedettini che vi si stabilirono.
planimetria della chiesa originaria

La chiesa originaria era a tre navate ed era preceduta da nartece, poi inglobato – tra VIII e X secolo - dalle navate. Traccie dell’antico nartece si troverebbero nei grandi archi tamponati visibili sulle pareti nord e sud in prossimità della facciata. Tramite essi si accedeva probabilmente ad ambienti laterali annessi al nartece stesso, forse deputati ad assolvere la funzione dei pastoforia, non presenti al tempo della prima edificazione ma realizzati successivamente, durante l'episcopato di Mariniano (595-618).
Nel 1316 – grazie ad un generoso lascito testamentario - vennero apportate modifiche alla chiesa e al monastero inserendo elementi gotici di cui resta il portale con la strombatura ogivale. Fu anche costruito un quadriportico antistante alla basilica distrutto durante i bombardamenti della II guerra mondiale.
Nel 1459 la basilica fu affidata ai Canonici Regolari di San Salvatore.
Nel 1568 l'abate Teseo Aldrovandi fece ristrutturare e abbellire la chiesa. Molto probabilmente le ultime tracce dei mosaici di epoca placidiana furono distrutte durante i lavori di ampliamento del presbiterio voluti dall'abate. A questo scopo venne inoltre murato un arco su ogni lato della navata e nelle lunette l'abate commissionò a Roberto Longhi due affreschi raffiguranti rispettivamente Galla Placidia nella tempesta e il miracolo del sandalo. 

L'affresco raffigurante Galla Placidia nella tempesta nella sua collocazione originaria

Lo stesso affresco come si può osservare oggi al Museo Nazionale di Ravenna

Nel corso delle trasformazioni settecentesche cui fu sottoposta la basilica, le lunette vennero scialbate e rimasero invisibili fino ai restauri novecenteschi, quando gli affreschi vennero strappati e le tamponature degli archi rimosse. Oggi i due affreschi sono conservati nel Museo Nazionale di Ravenna.
In occasione del VI centenario dantesco celebrato a Ravenna nel 1921, la basilica fu oggetto di un importante piano di recupero volto all'eliminazione di tutte le sovrapposizioni settecentesche.
Tra gli interventi principali – oltre alla già citata rimozione della tamponatura degli archi prossimi alll'abside - si annoverano: l’apertura della loggia al secondo livello dell’abside (prima tamponata), l'oscuramento della bifora rinascimentale di facciata, il rifacimento del soffitto, il recupero dei mosaici del piano pavimentale del 1213 (già scoperto parzialmente nel Settecento), il restauro degli affreschi della volta della cappella trecentesca (detta anche “giottesca”), la liberazione del corpo esterno della chiesa con l’abbattimento di alcuni fabbricati pertinenti l’ospedale insediato nell’Ottocento, il restauro del campanile.
planimetria della chiesa attuale

Il portale trecentesco è oggi addossato al muro occidentale dello spazio racchiuso che introduce alla basilica. E' riccamente decorato con statue e bassorilievi: nella lunetta, è raffigurata l'Apparizione di San Giovanni a Galla Placidia, affiancata da due gruppi di angeli; ai lati della strombatura, vi è l'Annunciazione; nel timpano, invece, al centro c'è il bassorilievo con San Giovanni e un imperatore (probabilmente Valentiniano III), alla sua sinistra San Barbaziano (1) con sacerdoti, alla sua destra Galla Placidia con soldati e, sopra, il Redentore.


La facciata della basilica è molto semplice, con un alto protiro ad arco medievale con pilastrini in mattoni. Sotto il protiro si trovano il portale d'ingresso e una monofora.

All'interno la chiesa presenta attualmente una pianta a tre navate con abside poligonale all'esterno e circolare all'interno, traforato da sette monofore intervallate da colonnine di marmo. 


Abside

Le navate sono scandite da due filari di 12 colonne di marmo proconnesio.


Nella navata sinistra, sono appesi alla parete i frammenti musivi che provengono dalla decorazione pavimentale ordinata dall’abate Guglielmo nel 1213, come emerge da una lacunosa iscrizione (2). Dieci di questi frammenti celebrano le gesta della quarta crociata e la nascita dell'impero latino di Costantinopoli. Il tema – del tutto inconsueto, anche perché i crociati furono inizialmente scomunicati da papa Innocenzo III per aver rivolto le armi contro altri cristiani – è svolto con estrema aderenza alla realtà storica (come nel pannello in cui si vedono i crociati addossare le scale alle mura marittime direttamente dalle navi come realmente avvenne), sì da originare un variegato ventaglio di ipotesi circa le ragioni che potrebbero aver spinto l'abate a questa rappresentazione apologetica (3).  


I crociati assaltano le mura marittime di Costantinopoli

La resa di Costantinopoli

Altri lacerti musivi rappresentano invece temi medievali classici, un frammento dei mesi, scene di caccia e soprattutto animali fantastici e favolistici.
All'incirca a metà della navata sinistra si apre poi una cappella di forma quadrata aperta nel XIV secolo. E' voltata a crociera e presenta affreschi di scuola giottesca che raffigurano Santi, Dottori della Chiesa (S.Girolamo, Sant'Ambrogio, Sant'Agostino e S.Gregorio), e gli Evangelisti con i loro simboli. Sull'altare un affresco della Maddalena che tende le braccia verso la croce.


Ricostruzione ipotetica dei mosaici absidali di epoca placidiana


L’ipotesi ricostruttiva della decorazione di epoca imperiale della zona absidale, si basa principalmente su quattro sermoni e su descrizioni lasciate da artisti e antiquari che ebbero modo di vederli e prevede la presenza della cattedra vescovile dietro la quale la parete era rivestita in marmo. Al di sopra si sviluppavano i mosaici in cinque fasce orizzontali.
Nella prima, in corrispondenza della cattedra, San Pietro Crisologo celebrante con l’angelo, sulla sinistra le figure di Arcadio e Eudossia, e sulla destra Teodosio II ed Eudocia.
Nella seconda fascia l’iscrizione:

CONFIRMA HOC DEVS QVOD OPERATVS ES IN NOBIS A TEMPLO SANCTO TVO, QVOD EST IN IERVSALEM. TIBI OFFERENT REGES MVNERA.

La terza fascia era interrotta da una loggetta centrale, composta da sette arcate, ai cui lati si presuppone la raffigurazione dei quattro evangelisti.
Nella quarta fascia l’iscrizione:

SANCTO AC BEATISSIMO APOSTOLO IOHANNI EVANGELISTAE GALLA PLACIDIA AVGVSTA CVM FILIO SVO PLACIDO VANTINIANO AVGVSTO EF FIALIA SUA IVSTA GRATA HONORIA AVGVSTA LIBERATIONIS PERICVCVM MARIS VOTVM SOLVENT. 

Nell’ultima fascia, corrispondente al catino absidale, era rappresentato il Salvatore con il Vangelo aperto nella mano sinistra. Alla sommità dell’arco di trionfo, al centro la figura del Redentore che consegna il libro a San Giovanni Evangelista e a destra e sinistra era ripetuta la scena di Galla Placidia con la prole guidati dal santo sulla barca in tempesta.
Dai peducci dell’arco partiva l’iscrizione:

AMORE CHRISTI NOBILIS ET FILIVS TORNITVI SANCTVS IOHANNES ARCANA VIDIT. GALLA PLACIDIA AVGVSTA PROSE ET HIS OMNIBVS HOC VOTVM SOLVIT

Sottostante la scritta le immagini, forse clipeate, di antenati e parenti di Galla Placidia. A sinistra Valentiniano I, Graziano – nonno e zio dell'augusta - il marito Costanzo e i fratelli, morti in tenera età, Graziano e Giovanni. A destra Costantino, il padre Teodosio I, i fratellastri Arcadio e Onorio e il figlio avuto da Ataulfo, Teodosio.
Con questo particolare programma iconografico, l'augusta, da poco insediatasi sul trono d'Occidente come reggente del figlio Valentiniano, sembra volerne ribadire la legittimità in forza della sua appartenenza a pieno titolo alla dinastia teodosiana regnante in Oriente.


Note:

(1) sacerdote di origini antiochene, si recò a Roma dove gli furono attribuiti diversi miracoli. Galla Placidia lo fece venire alla corte dio Ravenna dove divenne il suo padre spirituale.

(2) All’interno di un circolo un tempo visibile sul pavimento in mosaico della navata centrale, erano indicati sia il nome del committente che l’anno di esecuzione dell’intera opera: «Dnus Abbas Guilielmus hoc op [...] anno millesimo ducentesimo tertio decimo».  

(3) Una esauriente disamina di queste ipotesi si trova in Gianantonio Tassinari, San Giovanni Evangelista e i mosaici della Quarta crociata. Considerazioni araldiche in Ravenna Studi e Ricerche, n. XXIV, 2018









venerdì 16 giugno 2023

Chiesa del Cristo Pephaneromenos

 Chiesa del Cristo Pephaneromenos



Circa 60 metri a nord dell' Incili Kosk (1), integrata nelle mura marittime che danno sul Mar di Marmara, spicca la facciata di un edificio che presenta un grande arco centrale, tamponato in un'epoca successiva lasciando aperti un ingresso e una finestra sovrastante entrambi coronati da un arco. L'arco centrale è fiancheggiato da due ingressi laterali. 

 a sn. i resti delle sostruzioni dell'Incili kiosk, a ds. la facciata dell'ipotetico edificio religioso inserita nelle mura marittime

La facciata si presenta movimentata da nicchie e decorazioni a mattone. All'interno lo spazio è suddiviso in una navata centrale separata dalle due laterali da due archi impostati su un pilastro centrale e due semipilastri addossati alle mura perimetrali.


L'edificio è stato a lungo identificato come parte del monastero di Cristo Filantropo, la ricerca attuale tende invece ad identificarlo con la chiesa del Cristo Soter Πεφανερωμένος (manifestato) (2) che compare nelle fonti solo molto tardi in età paleologa.

Le informazioni contenute nel typikon del monastero di Cristo Filantropo con l'annesso convento femminile dedicato alla Vergine Kecharitomene – fatti costruire rispettivamente da Alessio I Comneno (1081-1118) che vi si fece anche tumulare e dalla moglie Irene Dukaina – collocano infatti il complesso sulla costa del quinto colle, vicino alla cisterna di Aspar, ovverosia in una zona del tutto diversa (3).
I pellegrini russi – in particolare un anonimo del XIV secolo ed il diacono Zosimo che visitò Costantinopoli tra il 1419 ed il 1422 – descrivono invece una fonte miracolosa che si trovava al di sotto di una chiesa lungo la riva del Mar di Marmara, nei pressi della chiesa di San Giorgio ai Mangani.
Anche Marco Eugenico (1392-1444) in un inno racconta che l'imperatore Giovanni VIII per curare i suoi reumatismi si recò ad una fonte che si trovava in “una chiesa dedicata al Cristo Soter vicino al monastero di san Giorgio ai Mangani". La chiave di lettura definitiva per l'identificazione dell'edificio si trova in un breve trattato teologico di Gennadio Scolario – Sulla Divina predestinazione – dove è descritto un incontro tra Giovanni VIII e Marco Eugenico che ha luogo nella chiesa del Cristo Pephaneromenos, sita in vicinanza del monastero dei Mangani.

E' dibattuta anche la datazione dell'edificio. La presenza della muratura “a mattone arretrato”, in area costantinopolitana, secondo M.de Zulueta, dovrebbe indicare l'XI-XII secolo, mentre le variegate decorazioni a mattone somiglierebbero più a quelle della chiesa costantinopolitana del Cristo Pantepoptes (1096-1097) e della Nea Moni di Chios (1042-1055) - che fu comunque edificata quasi sicuramente da maestranze costantinopolitane - che non a quelle di età paleologa della chiesa meridionale di Costantino Lips (seconda metà del XIII sec.). Seguendo questa datazione l'autore, giunge ad ipotizzare che, originariamente, la struttura – anziché appartenere ad un edificio religioso - rappresentasse l'ingresso dal mare al palazzo dei Mangani, fatto aprire da Costantino IX Monomaco (1042-1055) e vistosamente ridotto di ampiezza in epoca paleologa per ragioni militari.


particolare della decorazione a mattoni

particolare della decorazione della chiesa del Cristo Pantepoptes


Note:

(1) L'Incili kosk (chiosco delle perle) fu fatto erigere dal Gran Visir Sinan Pasha tra il 1589 ed il 1591 come dono per il sultano Murad III. Demolito nel 1871 per far posto alla strada ferrata, ne rimangono visibili oggi solo le sottostrutture.



(2) L'epiteto "pephaneromenos" sarebbe dovuto al fatto che la chiesa fu eretta nel punto dove era miracolosamente apparsa un'immagine del Cristo (Stefano di Novgorod).

(3) E' stata anche ipotizzata l'esistenza di un secondo monastero dedicato al Cristo Filantropo, fondato da Irene Choumnaina nel 1307 - figlia di Niceforo Choumnas che fu per quindici anni mesazon di Andronico II - in cui identificare l'edificio inserito nelle mura del Mar di Marmara e in cui si sarebbe trovata la fonte miracolosa. Ma tutti i pellegrini russi che riferiscono di questo aghiasma lo collocano in prossimità di una chiesa dedicata al Cristo Salvatore e non aggiungono mai l'epiteto di “filantropo”, né parlano di un monastero. Oltracciò il typikon del monastero fondato da Irene Choumnaina – peraltro conservatosi in maniera frammentaria – presenta forti similitudini con quello del monastero di fondazione comnena, tali da far pensare che si tratti della stessa fondazione che fu restaurata e ristrutturata, anziché costruita ex novo, dalla figlia del mesazon di Andronico II.

 

Bibliografia:  

N. Melvani, The duplication of the double monastery of Christ Philanthropos in Constantinople, Revue des études byzantines, Année 2016, 74, pp. 361-384 

M.de Zulueta, A Grand Entrance or The Facade and Crypt of a Church in the Marmara Sea Walls at Istanbul?, Revue des études byzantines Année 2000, 58, pp. 253-267